Tra Pachino e Licata virus che minaccia i pomodori «Contagio anche per contatto e resiste per secoli»

Tobrfv. Sei lettere per sintetizzare l’espressione inglese tomato brown rugose fruit virus. Ovvero una grave minaccia per le piantagioni di pomodoro sparse per la Sicilia. Il virus, finora, è stato localizzato nella fascia trasformata, quella parte di costa sud-orientale che da Pachino arriva fino a Licata, toccando dunque le province di Siracusa, Ragusa e Agrigento. Zone in cui le coltivazioni dell’ortaggio, specialmente in serra, rappresenta un’importante fetta del mercato agroalimenare. 

Nei giorni scorsi all’Ars si è tenuta un’audizione a cui hanno preso parte diverse realtà imprenditoriali, preoccupate dalle potenziali conseguenze per l’intero settore. Il Tobrfv è stato isolato per la prima volta in Giordania, nel 2014. L’anno dopo è stato registrato anche in Israele. L’inizio della diffusione in Europa, invece, risale al 2018. A individuare il virus è stato Walter Davino, professore di Patologia vegetale all’Università di Palermo. «Il primo caso è stato registrato nel Ragusano, si è trattato della prima presenza nel continente. Anche se subito dopo anche in Germania sono stati certificati altri casi», spiega Davino a MeridioNews.

Il virus causa diverse tipologie di danni sulla pianta e sul frutto, fattori questi che non mettono a rischio la salute dell’uomo ma compromettono la produttività e la commerciabilità. Dalle maculature agli spot necrotici, ma anche rugosità, striature e deformazioni. Questo rischiano i pomodori siciliani. «All’inizio si pensava che potesse essere l’evoluzione di un virus conosciuto, ma poi si è scoperto che non era così, si trattava di qualcosa di nuovo – continua il professore -. Questo significa che al momento non esiste un protocollo internazionale che chiarisca quali procedure adottare per fare le diagnosi». Il gruppo di scienziati con cui collabora Davino sta lavorando a un progetto che punta proprio all’uniformazione di standard europei. «Si tratta di un passaggio fondamentale perché è necessario che i casi vengano trattati allo stesso modo, indipendentemente dalla nazione in cui si fa la scoperta», sottolinea.

Oggi la malattia è sata riscontrata anche in America Centrale e in Africa. Ma l’aspetto che più preoccupa studiosi e imprenditori agricoli è la facilità con cui avviene il contagio. «Trattandosi di un virus, l’unica cosa che si può fare è cercare di contenerlo, isolando le piante infette – va avanti Davino -. La difficoltà sta nel fatto che il virus può essere trasmesso non solo tramite i semi oppure operazioni come gli innesti, ma anche per contatto. Quindi – specifica lo studioso – se una persona maneggia un frutto infetto e poi maneggia una pianta sana è probabile che causi il contagio». Il mondo scientifico è d’accordo su un punto: l’unico modo per superare il problema è quello di riuscire a sviluppare ibridi capaci di resistere. «È una strada percorribile, ma bisogna essere realisti e dire – conclude Davino – che ci vorranno diversi anni».

Cosa fare dunque nell’immediatezza? «Sarà fondamentale che i coltivatori e le aziende agricole collaborino con le istituzioni che saranno chiamate a censire i casi di piante infette – commenta il vicepresidente regionale della Federazione degli agronomi Franco Celestre -. La Regione si è mostrata attenta al fenomeno. Un problema da non sottovalutare sarà quello riguardante le modalità di distruzione delle piante infette». Su questo aspetto fa chiarezza il professore Davino. «La letteratura scientifica ci dice che virus simili al Tobrfv resistono anche nei tessuti morti e nei terreni, e possono essere ritrovati anche a distanza di centinaia di anni. L’unico modo per eliminarlo è bruciare la pianta e sterilizzare i terreni, ma – conclude – sono procedure che vanno fatte in maniera controllata».

Simone Olivelli

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