Totò Riina, il fonico antimafia col nome del padrino «Nel ’91 sequestrato da agenti con pistola puntata»

«Ringraziamo Totò Riina, questa serata è solo merito suo». A sentire una frase del genere nel bel mezzo delle manifestazioni organizzate a Cinisi per i 40 anni dall’omicidio mafioso di Peppino Impastato si resta davvero di sasso. E malgrado il pensiero corra veloce a quel boss effettivamente morto e sepolto appena sei mesi fa, scacciare le perplessità e tornare ad applaudire è difficile. Ma quei ringraziamenti, infatti, ben poco hanno a che fare col boss di Corleone. Anzi, proprio nulla. «Ci sono tante cose nella vita che uno è obbligato a sopportare. Io ho avuto, come dire, questa disgrazia. Anche se forse definirla così è un po’ esagerato». Ormai negli anni ha imparato a scherzarci e a riderne, di quel nome che porta da sempre. Ma non nasconde che non è sempre stato facile convivere col fatto di chiamarsi come il capo dei capi di Cosa nostra. Lui, infatti, è Totò Riina, arzillo pensionato di Partinico che oggi fa il fonico per passione.

«Ho sempre avuto la musica nel sangue, sin da quando ero un ragazzino, amavo regolare la strumentazione davanti al complesso di amici che si esibiva nei locali», racconta a MeridioNews. La sua è una giovinezza che trascorre nell’indifferenza più totale verso quel nome. «Il cognome di mio padre questo era, Riina, diffusissimo in Sicilia, e mio nonno si chiamava Salvatore, era originario di Cosenza». E poi è nato lui, che proprio da quel nonno ha ereditato il nome. E anche il diminuitivo. «Noi in famiglia – continua a raccontare -, sia io fino a un certo punto che i miei genitori, non conoscevamo certo l’altro omonimo né la sua fama. Non quando sono venuto al mondo, almeno. Anzi, da quando conosco Giovanni Impastato ho preso parte a molte iniziative organizzate da lui e da Casa Memoria, ho collaborato in molte occasioni, per cui mi sono sempre ritrovato in mezzo a persone che si battono per la legalità, a dispetto di ciò che evoca il nome che porto».

Un sodalizio, quello con Impastato, nato soprattutto per via del matrimonio con la moglie, originaria di Cinisi. Dopo 40 anni passati nel settore del noleggio di videogiochi, Riina ha iniziato a dedicarsi a tempo pieno alla passione giovanile, prestandosi proprio a gestire eventi e manifestazioni, le ultime in ordine di tempo in occasione proprio della ricorrenza dell’omicidio del militante. «Sono stato spesso a stretto contatto con questori e vice questori, proprio per via di quello di cui mi occupo. Potrei dire quasi di esserci nato in mezzo a queste figure istituzionali. Eppure, malgrado le mie amicizie, frequentazioni e collaborazioni legate al lavoro, mi sono ritrovato in passato in una situazione molto imbarazzante», rivela Riina.

«Una sera di dicembre del 1991 sono stato fermato all’uscita dell’autostrada da una pattuglia. Mi hanno chiesto documenti e generalità, e a un certo punto mi hanno putato addirittura la pistola contro – racconta -. Ho avuto paura, ho capito in quel momento che non poteva trattarsi di un normale posto di blocco, ma non capivo fino in fondo cosa stesse accadendo». I tempi dilatano moltissimo e lui e la moglie restano lì fermi dove erano stati bloccati per più di tre ore. Un tempo enorme, dovuto probabilmente al fatto che tutte le comunicazioni necessarie all’epoca non erano agevoli e rapide come quelle che ci sono oggi.

A trarlo in salvo da quello che assumeva sempre più i contorni di un grande e pericoloso equivoco è uno dei suoi tanti amici istituzionali: «L’allora vice questore di Partinico, che mi conosceva personalmente, passando di lì per caso fuori dal servizio mi ha visto bloccato per strada. Mi ricordo ancora la scena – dice -, è venuto verso la mia auto con un sigaro in bocca e mi ha chiesto cosa stesse succedendo. Capito l’equivoco, è andato dai colleghi e mostrando loro il tesserino li ha intimati di lasciarci andare: “Potevate fare una telefonata alla questura di Partinico, al signore lo conoscono cani e gatti. Lo avete trattenuto per oltre tre ore, questo è sequestro di persona. Non meritate di stare in strada, non penso che ci lavorerete più”. Le sue parole furono durissime».

L’episodio scoperchia un vero e proprio vado di pandora e fa emergere un problema fino a quel momento ignorato da Totò e dalla sua famiglia: quello di portare un nome particolare, scomodo, un nome condiviso con qualcuno che il mondo intero proprio in quegli anni stava imparando a conoscere per i suoi orribili crimini firmati Cosa nostra. Il ricercato numero uno, insomma. «Fu necessario fornirmi un documento speciale rilasciato dalla prefettura in cui si specificava la mia estraneità al cognome del boss. Un documento che portavo sempre con me, lo tiravo fuori tutte le volte che ero costretto a identificarmi, dovevo sempre spiegare chi ero, anzi…chi non ero. È solo da quel momento e dopo quella brutta esperienza che ho cominciato realmente a conoscere l’omonimo con cui dividevo il nome, e che all’epoca era latitante».

Fino a quel momento, insomma, la sua vita era trascorsa ignorando totalmente gli effetti di quel nome e tutto quello che avrebbe comportato nel tempo questa scomoda omonima. «Non l’ho mai vissuta però in maniera cattiva, in fondo a pensarci il personaggio di Totò Riina, sforzandosi di mettere da parte il suo essere stato uno dei più sanguinari padrini di Cosa nostra, era caratterizzato da molto carisma perché riusciva ad assoggettare a sé tante persone – spiega -, uno in un certo senso dotato di una certa capacità, in chiave ovviamente tutta negativa». Ma intanto era uno dei latitanti più ricercati al mondo, fino al ’93. «La gente però mi ha sempre dato molto coraggio, scherzando su questa omonimia per sdrammatizzare, per alleggerire tutto e oggi, almeno tra Partinico e Cinisi, mi conosce chiunque e il mio nome non fa più tanto effetto. E chi non mi conosce, dopo un momento iniziale di perplessità, non può che sorriderne come ho imparato a fare io».

Silvia Buffa

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