Toti Lombardo, il figlio di candidato all’Ars «La mafia? Non sposta voti»

Del liceo classico Mario Cutelli di Catania si diceva – e forse si dice tutt’ora – che era il banco di prova della classe dirigente cittadina e regionale. Si vantava, il Cutelli, d’essere una di quelle scuole superiori in cui la politica era importante. In cui le elezioni a rappresentante d’istituto erano una cosa seria, precedute da una vera campagna elettorale. Lo sapeva bene Toti Lombardo, l’aspirante parlamentare regionale più chiacchierato del momento, che lunedì 22 ottobre, alle 18, chiuderà la sua campagna elettorale alla Terrazza Ulisse. Il figlio di quel Raffaele Lombardo che lascia la presidenza dell’Assemblea regionale siciliana a causa del processo Iblis, nel quale è indagato per concorso esterno in associazione mafiosa e voto di scambio aggravato. Toti Lombardo già nel cortile di scuola – che all’epoca condivideva con un altro illustre figlio di, cioè Giorgio Musumeci, rampollo di Nello – faceva parlare di sé. Per via del cognome, per via degli occhi azzurri, per via della politica giovanile e per via delle prevendite per le serate in discoteca della cui elargizione si occupava personalmente come il più consumato dei pr. «Quei tempi sono passati in fretta, ho smesso a 14 anni: ma all’epoca la discoteca serviva, creava il gruppo e lo consolidava», ride Toti. Lui che, dall’alto dei suoi ventiquattro anni, di strada è sicuro di averne fatta: «A scuola la contrapposizione era solo tra la sinistra dei collettivi e la destra più estrema, io ho creato il primo partito di centro». Con il quale, appena quattordicenne, iniziò la sua carriera politica. Fu un plebiscito. Poi ha ottenuto la presidenza della Consulta provinciale studentesca, «e infine mi hanno ostracizzato, sono andato a Roma e ho continuato lì», racconta, giocando con il braccialetto giallo e rosso – i colori della Sicilia – che porta al polso.

Perché parli di ostracismo?
«Mio fratello è andato via per studiare Medicina, anche se ai test per la facoltà di Catania era arrivato sesto. Ma, ovviamente, mio fratello era arrivato tra i primi perché era raccomandato, non perché era bravo e per due anni non ha avuto vacanze. Lui era raccomandato, doveva essere raccomandato. E con me è andata sempre allo stesso modo: se fossi rimasto a Giurisprudenza a Catania avrei beccato il professore amico, oppure quello che non mi sopportava per principio e che mi avrebbe massacrato. Altrove, invece, puoi sperare di farti valere per quello che sei a prescindere da tuo padre».

Dici che le colpe di tuo padre sono ricadute sui figli?
«No, dico che per la mentalità che abbiamo qui è difficile che una persona da sé possa avere dei meriti. O anche delle colpe. Si tende sempre a giustificare troppo, oppure a fare una dietrologia esasperata».

E tu non sei mai stato raccomandato? Non sei mai stato privilegiato perché tuo padre è Raffaele Lombardo?
«Sicuramente. Ma sono stato trattato in maniera diversa anche in negativo, proprio per via del mio cognome».

E in positivo? Un esempio? A scuola, all’università?
«Beh, andando sul personale, sono tanti gli amici che arrivano da te perché sei il figlio di uno o il nipote di quell’altro. A scuola può darsi, all’università sicuramente no».

 Università privata, giusto?
«Sì, prima ho frequentato l’università Europea, poi sono andato alla Luiss, perché volevo fare un percorso più complicato, anche se ho perso un anno. Del resto, nell’ultimo anno e mezzo i problemi giudiziari di mio padre – anzi, le vicende giudiziarie di mio padre, perché non si tratta di problemi – mi hanno colpito molto».

Hai seguito il processo? Hai letto le carte?
«Sì, ma non vorrei parlare di ciò che riguarda mio padre».

È inevitabile. Quando ti sei candidato alle elezioni regionali, considerando le dimissioni di tuo padre e il clamore attorno al tuo cognome, non hai temuto di fare una scelta prematura?
«No. Mia madre non voleva che io mi candidassi, mio padre ha tentato di limitarmi. Io so che voglio lavorare per la mia Regione, so che ho delle buone idee e so che posso fare del bene alla Sicilia. Faccio la mia campagna, gli elettori decideranno se ho fatto bene a candidarmi oppure no».

Cosa pensi del processo?
«È uno dei pochi casi in Italia in cui un uomo, un politico, tenta di farsi processare velocemente e di farsi interrogare, ma non ci riesce. In più, mio padre al momento è solo indagato e si è dimesso. Peraltro, dimostrando grande responsabilità, perché ha evitato che le elezioni regionali si sovrapponessero alle elezioni nazionali. Ci sono persone che, pluricondannate, restano al loro posto».

Ma parliamo del presidente della Regione Sicilia – quello eletto dopo Totò Cuffaro – e parliamo, ancora, di reati di mafia. Non è esattamente una cosa da nulla.
«Dobbiamo metterci d’accordo sul garantismo. Se decidiamo di infischiarcene della Costituzione, se diciamo che per i reati di mafia il garantismo non vale e uno deve essere trattato come colpevole sin dall’inizio delle indagini, allora era doveroso che mio padre si dimettesse. Ma mi pare che una cosa del genere non sia prevista dalla Costituzione».

Alla presentazione della tua campagna elettorale, a Catania, sei stato accolto da un pubblico vastissimo, come se fossi la star di queste elezioni. In quel caso hai detto che tuo padre ha fatto la vera antimafia a Palazzo d’Orleans. Visto quello di cui è accusato, visto il fatto che in aula i pentiti hanno parlato di sostegno all’Mpa…
«Parliamo del termovalorizzatore di Bellolampo, previsto nel piano dei rifiuti del 2002, che era di fatto appaltato a gruppi vicini alla mafia. E che mio padre ha bloccato. Non si parlava solo della costruzione dell’impianto, ma anche della gestione: un affare miliardario, che è stato fatto saltare. Mi riferisco a questo quando dico che mio padre è stato l’antimafia della concretezza, e nessuno gliel’ha riconosciuto. Perché ai professionisti dell’antimafia, quelli che non fanno altro che andare ai convegni e a chiacchierare, una cosa del genere non conviene. Per carità, spiegare e parlare è importante, ma un politico ha dalla sua parte anche gli atti amministrativi».

Ci sono pentiti (Santo La Causa, considerato fino al 2009 – anno in cui è stato arrestato – il reggente della famiglia mafiosa catanese Santapaola-Ercolanondr) che parlano di appuntamenti in casa Lombardo.
«Per anni abbiamo creduto che Vincenzo Scarantino, un pentito, raccontasse la verità sulla strage di via D’Amelio e sull’omicidio di Paolo Borsellino. Adesso pare che non sia così. Il pentito non è verità che cola, se non ci sono riscontri nei fatti. Ci sono pentiti che hanno devastato la storia di questo Paese. Io voglio delle risposte su mio padre, ma voglio che non ci siano dubbi in proposito. Come prendere le dichiarazioni di Maurizio Di Gati (ex reggente di Cosa Nostra nell’Agrigentino, ndr) che dice di aver ricevuto ordine di votare Mpa, ma in un precedente interrogatorio aveva detto di sostenere un candidato Udc? A chi dobbiamo credere? A Di Gati prima o a Di Gati dopo? Onestamente, non lo capisco. E aspetto che il processo lo stabilisca».

Cos’è per te il clientelismo? (Toti Lombardo si alza in piedi, va alla libreria e prende un libro di Cicerone, «Manualetto di campagna elettorale». La prefazione è di Giulio Andreotti). 
«Non ho letto la prefazione. Mi sono concentrato su alcuni brani del testo, in cui si spiega il clientelismo alle sue origini. Il malcostume del clientelismo è stato trapiantato in questa terra almeno 2070 anni fa, gli anni ai quali questo libro fa riferimento. Io credo che sia il momento di annientare i meccanismi clientelari, che sono stati usati fino ad oggi per creare consenso. È una sorta di schiavismo che subisce la gente nei confronti della classe dirigente».

Tra le tante accuse che si rivolgono a tuo padre c’è quella di essere stato un burattinaio, capace di gestire la Regione Sicilia proprio grazie alle logiche clientelari.
«Questo è anche vero. Mio padre è di formazione democristiana, di conseguenza ha un’idea della gestione del potere di un certo tipo. Ma è vero pure che lui ha ridotto le società partecipate, una grande risorsa per i meccanismi clientelari. Ha ridotto il numero delle Ato per i rifiuti e, per la prima volta, anche il numero dei forestali. Perfino alla Sanità, che è il settore storicamente più legato al potere, invece di mettere qualche amico trombato alle elezioni ha messo Massimo Russo, un pubblico ministero legato all’antimafia e, soprattutto, un servitore dello Stato».

Come si infiltra, secondo te, la mafia nelle istituzioni? E tu non sei troppo giovane per non rischiare di essere travolto da meccanismi troppo più grandi di te?
«La mafia si infiltra negli appalti, segue i percorsi in cui si trovano i soldi. È mimetizzata e coperta da persone apparentemente perbene. Io non intendo far fare affari a nessuno. La mafia non cerca più il controllo sociale, la mafia non sposta un voto».

Dire che la mafia non sposti un voto è un’affermazione quantomeno audace. Peraltro, quelli tramite i quali si ottengono i voti, sono meccanismi ormai facili da riconoscere. Parliamo dell’ordine di votare, dei pullman per andare ai seggi, dei pacchi di pasta…
«Questi, però, non sono meccanismi spontanei. Hanno a che fare con il voto di scambio, è un reato…».

Andiamo alla tua campagna elettorale. La sede del tuo comitato è molto grande, ha tante stanze, si trova in pieno centro storico, è ben arredata. Poi ci sono quelle automobili elettriche con la tua faccia sorridente stampata sopra che girano per la città. Hai un budget molto alto.
«No, non così alto. La sede è stata un’occasione, volevamo molto spazio e questo era l’ideale. È in affitto, e il contratto è stato firmato dal mio mandatario elettorale. Le cinque mini-automobili elettriche sono a noleggio, e del noleggio si occupa un mio amico. In totale, ho pagato tremila euro per tre mesi. Ho deciso di non usare costosi manifesti da sei metri per tre, e ho vigilato sul fatto che le affissioni pubblicitarie fossero fatte esclusivamente in spazi regolari. Indubbiamente, posso permettermi cose che altri candidati non possono. Sono un privilegiato e non ho problemi a dichiararlo».

Infatti l’hai detto spesso in passato. Per esempio durante una delle innumerevoli interviste che hai rilasciato, sia ai media locali sia ai nazionali.
«Un’attenzione che non merito e che reputo, onestamente, inopportuna. Del resto, più è importante la testata, più demenziali sono state le domande. Di fronte all’ennesima richiesta di chiarimenti sul mio essere il Trota siciliano, non posso fare altro che rispondere con ironia (definendosi, per la cronaca, un pescespada, ndr). Come se alla gente non interessasse se ho qualcosa da dire, un programma da presentare: sembra che i giornalisti ritengano che le persone vogliono solo sapere com’è essere figlio di Raffaele Lombardo».

Cosa pensi della politica, oggi?
«La politica è in uno stato disastroso, non è riuscita a riformarsi e a riproporsi. Basta guardare al nazionale: il governo tecnico è l’evidenza del fallimento della democrazia. La politica deve dare un esempio. Io penso di iniziare associandomi a chi propone di dimezzare le indennità dei parlamentari regionali. E non perché io creda che guadagnino troppo: un politico vero, un politico che lavora, ha tante spese e, soprattutto, ha delle responsabilità che difficilmente altri sono disposti a prendersi. E anche il numero dei parlamentari, francamente, non mi sembra così elevato. Sì, sicuramente vanno ridimensionati, visto lo stato attuale delle cose: ma se facessero il loro lavoro non dimentichiamo che sarebbero l’unico riferimento della gente, dovrebbero confrontarsi direttamente – tutti i giorni – con i cittadini. Dovrebbero creare partecipazione. Non sono compiti facili».

Parliamo del tuo programma.
«Nove punti, nove proposte. Tra queste, un unico fondo regionale, da recuperare dai piccoli fondi di rotazione a disposizione di vari enti, dal quale finanziare solo progetti che aderiscono alle direttive generali dalla Regione. Non esisterebbero più i cento fondi da due milioni di euro, ma ce ne sarebbe uno solo da duecento milioni di euro. Nella mia idea sarà anche un fondo di garanzia per i giovani, perché dovrebbe servire loro per ottenere mutui dalle banche, in modo da poter mandare avanti i loro progetti con più serenità».

Vuoi essere il candidato giovane per i giovani?
«Non ho mai detto una cosa del genere, né mi interessa. Il mio staff è composto da miei coetanei, tutti volontari, che hanno formulato le proposte insieme a me. È tutta farina del nostro sacco, non ho mai telefonato a papà affinché mi aiutasse o mi facesse aiutare. Abbiamo lavorato da soli e sodo. Mi sono impegnato per essere il candidato di tutti, e spero che le mie proposte parlino per me».

 

[Foto di Liberi di crederci]

Luisa Santangelo

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