Torino, la violenta protesta dei Forconi Tra lanci di sassi, lacrimogeni, e caschi

A Torino la protesta è partita dai commercianti. Già da un paio di giorni sulle vetrine delle botteghe c’erano i fogli bianchi appesi: «Il 9 dicembre chiusi per sciopero nazionale», c’era scritto. A ricordare l’appuntamento con le nuove proteste partite dalla Sicilia e fomentate dal Movimento dei forconi e dagli autotrasportatori. Nei locali, i gestori si scusavano con i clienti per i disagi: «Lunedì chiuderemo – dicevano – Abbiamo un sacco di problemi, dobbiamo manifestare. Vi pare possibile che le tasse siano aumentate così tanto? Vi pare giusto che la quota sulla spazzatura sia salita di più del quattrocento per cento?», domandava il proprietario di un ristorante. «Ma davvero?», replicavano gli avventori. «Davvero – rispondeva quell’altro – Qui o si manifesta o si muore». Questa mattina un ragazzo di trent’anni, in piazza Castello, nel pieno centro del capoluogo piemontese, chiudeva il cerchio: «In questa manifestazione ci scappa il morto».

E intorno alle 11 un’eventualità simile sembrava plausibile. A tentare di entrare in piazza Castello da via Garibaldi si rischiava di venire colpiti dalle pietre che alcuni manifestanti lanciavano contro i camioncini delle forze dell’ordine. Tra polizia e carabinieri, saranno stati almeno una decina. E circa il doppio erano le automobili con i lampeggianti accesi, a presidiare via XX settembre. La piazza era stata trasformata in un campo di battaglia. Davanti ai cancelli del palazzo Reale, di palazzo Madama e a quelli – che poi erano il vero obiettivo della gente in strada – del palazzo della Regione, carabinieri e poliziotti in assetto antisommossa indossavano le maschere antigas, mentre per terra esplodevano bombe carta e bottiglie di vetro. «Smettetela di lanciare le pietre, c’ammazzate a tutti», urla un ragazzo sulla ventina. «Ma quelli t’ascoltano, secondo te? Quelli sono gli autonomi». «Gli autonomi», cioè i ragazzi dei centri sociali di estrema sinistra. «Quelli che s’infiltrano nelle manifestazioni per rovinarle, per dare fastidio», spiega un cronista – tesserino dell’Ordine dei giornalisti alla mano – a una signora che gli domanda: «Ma i commercianti sono là sotto?».

«Doveva essere una protesta pacifica, noi siamo gente perbene», si lamenta una donna, sulla cinquantina. Appuntato alla giacca ha un fiocco con una stampa tricolore: «L’unica bandiera che ho portato è questa, non m’interessano i partiti, non m’interessa Forza nuova, loro qui non c’entravano niente», sostiene. I ragazzi di Forza nuova, quindi di destra estrema, vengono additati da molti come gli intrusi. Quelli che hanno portato la politica in un movimento spontaneo di rabbia. Portano in trionfo la bandiera italiana, lanciano sassi accanto ai giovani che pare provengano dai centri sociali di sinistra. Fianco a fianco. Dalla stessa parte ci sono quelli con la sciarpa della Juventus o del Torino: «Gli ultras», pare. Le forze dell’ordine picchiano i manganelli contro gli scudi, sparano lacrimogeni in aria, in alto. Non si vede niente, gli occhi bruciano, continuano a volare pietre e bottiglie di vetro. Si sentono le esplosioni delle bombe carta. I cestini della spazzatura vengono divelti e lanciati in mezzo alla strada. I manifestanti se la prendono coi giornalisti: «Servi dei servi, pezzi di merda», gridano. A un cronista viene strappata dalle mani la fotocamera: «La devi finire con queste foto del cazzo, hai capito?», gli urla un giovane col volto coperto da un passamontagna nero. E poi gli butta per terra la macchina fotografica, l’obiettivo vola via, distrutto. Le videocamere vengono spinte lontano.

Un altro ragazzo col passamontagna nero tenta di recuperare un fumogeno finito a poca distanza da lui. Si china, lo prende con le mani, poi bestemmia: il fumogeno scotta, si è ustionato le mani. Così gli dà un calcio. Vola il fumogeno, ma vola anche la sua scarpa. Allora lui si toglie anche l’altra e la tira sui carabinieri: «Tanto adesso vengo a rubarvi gli anfibi dai piedi». Poi si guarda i suoi, di piedi. È rimasto in calzini. Sputa per terra. Corre verso gli altri che stanno mettendo a ferro e fuoco la piazza. Un’auto bianca, una Fiat Punto, ha il parabrezza e due finestrini spaccati. Le transenne vengono scagliate contro gli scudi degli agenti. Loro reagiscono: parecchi lacrimogeni vengono sparati ad altezza uomo. E arrivano a segno.

Un’ora dopo la situazione si calma. Arriva la notizia che «gli sbirri a porta Susa si sono tolti i caschi, hanno dato ragione ai manifestanti». Parte un applauso per le forze dell’ordine. «Stanno applaudendo la pula? Ma sono fulminati?», domanda una ragazza a un’amica. In pochi secondi parte un coro: «Via i caschi, via i caschi». Poliziotti e carabinieri si guardano tra loro perplessi. «Non possiamo farlo, per una questione di sicurezza», risponde un maresciallo. «Non vi facciamo niente!», grida un ragazzo dalla folla. Tutti ridono. Il clima è pesante. I dirigenti delle forze dell’ordine parlano tra loro. Un poliziotto il casco se lo leva: «Vediamo se così sono contenti, ‘sti coglioni», fa a un collega. «Rimettitelo subito!», gli urla un superiore. Questa cosa dei caschi sembra diventare l’obiettivo della piazza. Alcuni se li sfilano. «Non abbiamo ricevuto nessun aggiornamento in questo senso, gli ordini sono di tenerli in testa, ma se toglierli può aiutare a calmare qualcuno…», afferma un carabiniere che blocca l’ingresso e l’uscita in via Garibaldi.

Dal palazzo della Regione qualcuno si affaccia. La folla esplode in un boato, partono gli insulti, i vari «Scendete se avete il coraggio». Ma non scende nessuno. «Perché ce l’hanno con la Regione? Non è una questione di tasse, giusto?» «Ce l’hanno con Roberto Cota (il presidente della Regione, in forza alla Lega, ndr), sono arrabbiati per la questione dei rimborsi elettorali», «La storia della Lega?», «E certo, la gente c’avrà ragione o no d’essere incazzata?».

Luisa Santangelo

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