«Ti rispettano solo per sapere cose che tu non sai» Le pressioni su Scarantino per non farlo collaborare

«C’appi a scuppiari u ciriviaddu». Questo pensa Lucia Messineo di Vincenzo Scarantino. È il 1995 e all’epoca quel picciotto della Guadagna passato alla storia come il finto pentito della strage di via D’Amelio è suo genero. Non si capacita la signora, lui dev’essere per forza impazzito per prendere quella scelta. Quella, cioè, di collaborare. «Tu bella sei salva – dice la signora, rivolgendosi al telefono alla figlia Rosalia Basile, all’epoca moglie di Scarantino -, ma noi qua… siamo stati con lo spavento addosso, lo capisci sì o no? Chiù ‘ncapu va chiù pericolu avemu nuatri ca semu in menzu a strata», dice la donna. Che investe non poche telefonate, tutte intercettate all’epoca e oggi trascritte e depositate a Caltanissetta al processo sul depistaggio, per convincere la figlia a fare ritorno a Palermo e il genero a tenere la bocca chiusa, ritrattando quanto dichiarato fino a quel momento. «Ci dici ca si ferma unni ca è, perché noi dobbiamo camminare… – dice ancora la signora alla figlia -, noi stiamo con la paura di uscire fuori, di camminare, con lo spavento che qua ci schifiano tutti».

Solo che Scarantino, all’epoca, non sembra mettere minimamente in conto la possibilità di tornare indietro. «Ma ti maltrattano? Ti sento infelice», gli chiede diretta la cognata in un’altra telefonata, pochi giorni dopo. «No no, a me no, io sono rispettato – risponde lui -. Sono contentissimo della scelta che ho fatto». Intanto a un certo punto la famiglia della moglie decide di tagliare i ponti e si rende irrintracciabile staccando il telefono di casa, in modo che la figlia Rosalia non possa più cercarla. «Forse qualcuno l’ha spaventata», ipotizza Scarantino. Che soffre le pressioni anche di un’altra famiglia, la sua. «Sei sempre in tempo… puoi dire la verità e saremo tutti a posto», gli ricorda in una telefonata il fratello Mimmo. Lui è un altro che non riesce a capacitarsi di questa scelta di collaborare. «Siamo tutti distrutti, noi per un conto e gente per un altro conto – insiste -. Hai pensato bene a quello che stai facendo? Perché tutti qui, pure il più scimunito, sono increduli… Ma ti sei messo nei panni delle persone che sono rimaste a Palermo? Sperano tutti che tu dica la verità al processo». Ma quale verità? Le pressioni dei diversi parenti, di sangue e acquisiti, perché Scarantino non collabori dipendono dal fatto che sanno tutti che non avrebbe alcuna verità da raccontare su quella strage?

No, no e no. Vincenzo Scarantino è fermo nella sua decisione, a dispetto di quanto supplicato dai familiari. Ma siamo sicuri? Nello stesso nastro dove sono impresse le liturgie del fratello Mimmo, l’AG 03_95 lato B, è rimasta registrata anche una telefonata – e non sarà l’unica – a quello che il collaboratore chiama «dottor Boa». È Mario Bo, l’allora dirigente del gruppo Falcone-Borsellino, oggi sotto processo a Caltanissetta insieme ai colleghi Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo per calunnia aggravata. «Siamo sempre ai soliti, no?», chiede a Scarantino, che lo chiama per dirgli che vuole tornare in carcere perché non se la sente più. È un ripensamento? Un passo indietro? Le pressioni della famiglia hanno sortito un qualche effetto? A Bo, che gli promette che ne parlerà con Arnaldo La Barbera, non precisa i motivi. Ma nei giorni successivi Scarantino prova a mettersi direttamente in contatto con La Barbera, chiamando alla questura di Palermo e chiedendo di lui. Senza però riuscire a trovarlo in ufficio.

Al suo posto c’è un certo dottore Selina, che è disponibile ad ascoltarlo, uno che avrebbe conosciuto una sera che tutti e due erano a Palermo e avevano fatto «tutto un giro in macchina». Quel giro sono i famosi sopralluoghi nei posti legati alla strage? Che di recente, a processo, un ex funzionario ha liquidato come «passeggiate per la città», vista l’assenza di verbali, relazioni, foto e altro? Scarantino si rifiuta, vuole parlare soltanto col questore, «ci volevo dire delle cose… a livello di quello che ho sentito in televisione… per quanto riguarda il fatto di Cancemi. Io ho accusato a lui, e lui oggi è andato a deporre – spiega – e ha detto che non ne sa niente, l’ha saputo tramite altre persone, che ha saputo della strage di Borsellino tramite Raffaele Ganci». I magistrati lo saprebbero già, ma lui freme per parlarne anche con La Barbera, «perché il cervello mi sta sbiellando, non so come devo fare». Ma cosa esattamente? Perché quella confusione e quell’urgenza di confrontarsi col questore?

Intanto, lontano da loro, a Palermo, iniziano a circolare una serie di maldicenze su di lui e la sua famiglia per via di quel pentimento. Di lui, in particolare, si vocifera sia omosessuale. La cognata al telefono cerca ancora di sondare il terreno. «Ma non molla? Completamente? Non può fare un fioretto al Signore? Però!». «Non molla», dice secca la moglie. La sorella però non riesce a darsi pace: «Io penso che se torna indietro è meglio», dice riferendosi a Scarantino. E le suggerisce di «non credere che tutto vada tranquillo e che è necessario guardarsi sempre le spalle». Le racconta, infatti, che nonostante lei si sia trasferita in Germania, quando la notte va a lavorare si gira per guardarsi attorno perché teme che qualcuno le possa fare del male, dato che lì ci abitano anche molti italiani. «Tu hai detto che hai riflettuto assai quando eri in isolamento, però io ti dico una cosa – dice, rivolgendosi direttamente a Scarantino -, i morti sono morti… ai morti non gliela dai più la vita… a quelli che siamo vivi gliela puoi guardare la vita, però ai morti mo’ non gli puoi fare più niente, non li puoi fare resuscitare. Se tu te ne sei pentito realmente, se veramente hai fatto qualcosa di male e te ne sei pentito realmente…». «Mi dovevo confessare al Signore», la interrompe lui.

«Ti dovevi pentire dentro di te, nel tuo cuore. Ti dovevi sacrificare tu… no agli altri, tu hai sacrificato a tanti – sostiene di rimando lei -. Se veramente ti sei pentito con tutto il cuore verrà accettato dal Signore, però che ci colpano quelli innocenti… che ci colpiamo noi innocenti?». «Io a tutti ho sacrificato, cade Sansone con tutti i filistei, tutti devono saltare». Ma anche la madre di Rosalia torna all’attacco, quando le due ritornano a sentirsi al telefono: «Digli a mio compare che si comporti bene, che ritorni nuovamente la pace in casa! Lo deve fare per me, gli dici. “Se tu non vuoi che io muoia lo devi fare per me”», riferisce alla figlia parlando di Scarantino. Ma lui non sembra intenzionato a fare passi indietro. Almeno fino a quel momento. Lo aveva detto già chiaramente alla moglie, durante un colloquio nel carcere di Pianosa: «Ci sono solo due strade, o mi impicco oppure collaboro». La moglie sta a sentirlo, è preoccupata, da quando lui ha deciso di prendere quella strada, infatti, lei è murata in casa, ha paura. Lui le dice che racconta «quattro balle» e che ha parlato coi giudici in merito a degli omicidi. La moglie per tutta risposta gli dice che è «veramente impazzito» e che ha sentito le notizie della televisione.

«È finita, è finita», ripete lui. Spiega che comunque lì a Pianosa lo rispettano. «Perché ti rispettano? – lo incalza la moglie -. Perché vogliono raggiungere il loro scopo. Vogliono sapere cose che tu… non lo so… boh». «Che io non so?». «Che tu non sai», taglia corto lei. Le spiega che si tratta di strage ma lei gli risponde ancora una volta che lui non c’entra niente in queste cose. Ma lui le dice che non uscirà più e che sono state portate delle prove e «fatte trovare cose». E la esorta più volte a prendere tutte le lettere che lui le ha mandato fino a quel momento e strapparle. Qualche abbraccio per parlarsi all’orecchio senza essere captati, per poi tornare a ribadire: «Ca dissi tutte cose».

Silvia Buffa

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