Dalla denuncia allo show mediatico. Il passo, a volte, può essere breve. Almeno a sentire Giovanni Sollazzo, vittima degli usurai che ha deciso di non piegarsi a minacce e intimidazioni, e che dei suoi aguzzini ha fatto nomi e cognomi, facendoli finire dritti in galera. Tra loro ci sono anche alcuni uomini della famiglia Mancuso di Limbadi, potente e sanguinaria ‘ndrina calabrese, colpita anche dal recente blitz della Procura di Catanzaro. Dopo quella denuncia la vita di Giovanni e della sua famiglia cambia. Prima finendo nei paradossali e fallaci meccanismi del sistema di protezione, poi scoprendo di non essere più considerato dallo Stato un testimone di giustizia ma un collaboratore. Pur non essendo un pregiudicato e non essere mai stato nemmeno indagato per mafia. Un cambio di status di cui non solo nessuno gli ha mai spiegato le ragioni, ma in conseguenza del quale riadattare la propria vita è risultato piuttosto complicato.
Dalle difficoltà a trovare un lavoro allo scoglio insormontabile di conti ed esigenze con cui confrontarsi quotidianamente. Senza considerare le generalità che restano sempre le stesse, nessuno a proteggere lui e la famiglia, e la paura costante di essere trovato e punito per aver fatto la cosa giusta: denunciare. «È un conto che pagherò solo con la morte», ha raccontato, con voce strozzata, a MeridioNews. Un pensiero, questo, che non lo lascia quasi mai e che rende quel tentativo estremo, disperato di rifarsi una vita normale molto più complesso. E che lo lascia basito di fronte a chi, come lui, ha deciso di denunciare e che, pur riuscendo a rifarsi una vita, non disdegna l’attenzione delle telecamere. Per raccontare, però, problemi e precarietà ben diverse, quando non addirittura inferiori, a quelle effettivamente patite e silenziate dai denuncianti come Giovanni. «Il problema non è certo che abbiano denunciato. Questo devono farlo tutti quelli che subiscono. E di certo non posso che essere felice se, dopo lo stravolgimento in cui ti trascina denunciare i mafiosi, lo Stato non li dimentica come ha fatto con me e molti altri. Ma anzi sa proteggerli e restituire loro qualcosa della normalità perduta».
E quindi? «Qualcuno vuole pagate le multe, qualcun altro anche il canone Rai. Sembra quasi che millantare condizioni di vita più critiche di quello che sono in realtà davanti alle telecamere dei giornalisti sia solo un’altra trovata per battere cassa con lo Stato. Io sono in una posizione comoda – dice -, non avrei bisogno di fare nessuno show. I miei problemi non li sbatto sui media per avere i riflettori su di me, ma li porto negli uffici di competenza, anche se questo può significare aspettare tempi estenuanti prima di una risposta o una soluzione. Fare show mediatici, però, è ben diverso dal denunciare. Non ci sto più a certe cose, moltoìi di quelli che puntualmente si lamentano in tv hanno un posto alla Regione e figli sistemati, noi invece nemmeno esistiamo. La gente dovrebbe saperle certe cose». Gli altri, insomma, sono testimoni finti, ingannevoli? «No, sono solo testimoni di serie A. Io e la mia famiglia testimoni di serie B. Eppure abbiamo tutti fatto la stessa scelta. Ma il punto non è che esistano quelli trattati meglio, per così dire. Ma che esistano degli invisibili come tutti gli altri, come me, come la mia famiglia. Perché creare distinzioni all’interno di una categoria che invece va protetta tutta, senza guardare al personaggio?».
«Perciò – torna a dire – chiedo alle istituzioni preposte: come facciamo a incoraggiare i testimoni? In questi giorni stiamo assistendo allo show mediatico di alcuni ex testimoni di giustizia che hanno già avuto risarcimenti, scorte, hanno lanciato libri e fatto tante altre cose, che oggi ancora vanno a bussare alle casse dello Stato a chiedere ulteriori soldi, con minacce di darsi fuoco, di protestare contro il ministero dell’Interno. E c’è chi, preposto a tale compito di inchiesta, come le varie Commissioni parlamentari antimafia, tra cui anche quella Commissione della onorevole Piera Aiello che presiede la X (nonché anche lei ex testimone di giustizia), li convoca in seduta stante e li ascolta celermente, applicando subito delle misure assistenziali. Invece uno come me, testimone di giustizia che da 12 anni richiede audizioni nelle varie Commissioni, da quella Centrale e quella Antimafia, e audizione al ministero dell’Interno, non viene preso in considerazione. Non vengono usati gli stessi parametri di valutazione». Gli stessi anni, circa, da cui Giovanni aspetta che qualcuno gli spieghi perché lo Stato lo considera un collaboratore di giustizia malgrado non sia mai stato un mafioso.
«Nulla da dire, in ogni caso, sulla categoria dei collaboratori, nella quale ho trovato molta solidarietà e umanità, a differenza dei testimoni di giustizia – sottolinea -. Chiedo all’onorevole Piera Aiello che mi faccia convocare davanti alla Commissione Parlamentare Antimafia con urgenza, e che mi vengano date le dovute risposte. Ho deciso, insieme a tutti gli amici dell’associazione dei Sostenitori dei collaboratori e dei testimoni di giustizia di cui sono il segretario, che faremo battaglia, che sarà civile, ma che non esiteremo a incatenarci davanti a quello stesso Ministero da cui attendo spiegazioni da ormai troppo tempo». A sottoscrivere le sue richieste anche Franca Decandia, fondatrice e presidente dell’associazione nazionale vittime di usura e di racket Anvu, che si è detta «sgomenta». «Se non sei tra gli adepti della signora Aiello, se non sei schierato apertamente con i suoi eroi di carta, non ti fa convocare – dice critica la presidente – e ammesso lo faccia, perché messa con le spalle al muro, non farà niente. Cercheremo insieme tutti di riprendere in mano situazioni come la tua». Puntando a un obiettivo ormai sempre più urgente: eliminare trattamenti di disparità e di privilegio rivolti solo ad alcuni, in svantaggio di molti altri.
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