«La mia azienda ha sede a meno di un chilometro di distanza dall’aeroporto. Stamattina, poco prima delle 8.30, ero su quella strada e ho visto passare le ambulanze e le forze di polizia. Avevo sentito alla radio che era successo qualcosa, ma non avevo capito bene cosa». Alessandro è catanese, ha 31 anni e vive e lavora a Bruxelles da almeno tre anni. Da quando è stato chiamato a lavorare in una grossa multinazionale che ha sede proprio nel «corporates village» a breve distanza dallo scalo di Zaventem, «il più grande di tutto il Belgio». È lì che alle otto di questa mattina due esplosioni hanno ucciso decine di persone: prima un attacco kamikaze, poi una seconda bomba. E una terza, rimasta inesplosa, a breve distanza dalle altre due. «La circolazione era bloccata, tutte le vie d’accesso all’aeroporto erano chiuse, c’erano militari a tutte le uscite dell’autostrada – racconta Alessandro – Quando sono arrivato in ufficio ci hanno informati di quello che stava succedendo».
Gli uffici che si occupano di comunicazione interna nella sua azienda inviano un bollettino ogni ora. Nel frattempo, sui computer, le pagine dei giornali si aggiornano di continuo. E si susseguono gli avvisi che informano sulle nuove direttive. «Nell’immediato c’era stato il divieto di non uscire dall’azienda. Poi hanno chiuso le scuole e i padri e le madri dovevano andare a prendere i figli». Così è stato permesso di andare via dall’ufficio, solo dopo averlo comunicato ai superiori. «Tutto per motivi di sicurezza, l’allerta è massima». Nello specifico è al livello quattro, il più alto in assoluto. La popolazione belga lo ha scoperto subito dopo gli attentati a Parigi, quando le strade erano militarizzate e nei quartieri più centrali c’era l’esercito. «Quella volta è durato una settimana, poi era stato abbassato in tutto il Paese», spiega Alessandro. Ma stavolta potrebbe essere diverso.
Stavolta è stata colpita Bruxelles. «A quanto ne so, i mezzi pubblici sono stati interrotti». A essere chiusa, quindi, non sarebbe stata solo la metropolitana in cui, intorno alle nove, è scoppiata la terza bomba della giornata, nella stazione di Maelbeek. A poca distanza dagli uffici della commissione europea. «Io vivo in una zona diversa, a circa dieci chilometri di distanza dal centro – continua Alessandro – Il mio è un quartiere residenziale senza particolari punti che attirino l’attenzione». Per questo dopo gli attacchi del 13 novembre nella capitale francese, l’innalzarsi della paura lui non l’ha avvertita particolarmente: «La mia area non ha subito controlli, non c’erano continui pattugliamenti come in centro». Ma neanche dai mezzi d’informazione sembrava trasparire un pericolo latente. «Può essere che non ci abbia fatto caso io ma, giustamente, non c’erano allarmismi».
«Quando, venerdì, è stato arrestato Salah Abdeslam, uno degli attentatori di Parigi, si percepiva un clima sereno. Come dire? Era stata data una buona notizia», sostiene il giovane catanese. «Ma ovviamente da oggi sarà tutto diverso, anche se ancora non sappiamo come». L’allarme quattro in passato ha significato scuole chiuse e metropolitane inaccessibili, oltre a una presenza capillare delle forze dell’ordine nei punti nevralgici della vita cittadina e non solo. «Adesso è tutto in divenire e molte informazioni anche noi che viviamo qui le apprendiamo tramite internet». Nel frattempo, a poche ore dalle esplosioni, «in ufficio c’è un silenzio surreale, non parla nessuno. Le strade sono congestionate perché sono stati interdetti alcuni accessi alla città». «Oggi il mio telefonino non ha smesso di suonare un attimo – conclude Alessandro – Una enorme quantità di messaggi e telefonate, sono tutti preoccupati. Ma io, per fortuna, sto bene». E l’aeroporto «lo vedo solo dalla finestra».
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