La paura adesso ha un altro volto. Non quello delle scosse, in diminuzione ma comunque imprevedibili. La paura è che la normalità non ritorni più. Perché il percorso verso la vita di tutti i giorni, perduta per il terremoto, sembra non ricominciare mai. Se lo raccontano ogni giorno gli abitanti di Fleri, frazione di Zafferana Etnea dove tutto si è fermato nella notte di Santo Stefano. Tanti danni, tanto il terrore, ma nessun morto, nessuna distruzione totale, è vero. E proprio per questo il migliaio di residenti di questo paese, improvvisamente diventato fantasma, non si aspetta di essere costretto all’Odissea che altre popolazioni terremotate, loro malgrado, si trovano ad affrontare. E tuttavia i dubbi crescono, di giorno in giorno. La solidarietà non basta «quando non sai se tornerai a casa – è il refrain – quando non sai se riavrai qualcosa indietro». Si vuole ripartire, ma tutto sembra terribilmente complicato.
Come, per esempio, riportare un po’ di vita in un paese dove al momento vive, più o meno, solo una decina di persone. Il cuore di Fleri rimane inaccessibile. Su via Vittorio Emanuele, la zona rossa del sisma, c’è il grosso degli edifici pericolanti e per questo, fino a quando tutto non sarà in sicurezza, la strada più importante della frazione è destinata a restare chiusa. «Ma così il paese resterà morto. La prima cosa da fare è riaprire la strada, fare tornare tutti a lavoro», dice a MeridioNews il signor Alfio Tomarchio. Da quarant’anni, e forse più, è lui il barbiere di Fleri. La sua base è il saloncino di via Vittorio Emanuele, al piano terra del palazzotto dove vive con tutta la famiglia. «Siamo dieci, compresi i miei figli e i nipoti, tutti sfollati». La casa non ha danni strutturali, il cemento armato ha retto, ma qualche parete buttata giù, anche nella bottega, ha reso inevitabile la dichiarazione di inagibilità.
Il terremoto, assieme alla tranquillità, si è così portato via anche i clienti. «Non posso lavorare, e come me tutti gli altri compaesani con le attività sulla via. Fleri è un posto di passaggio e senza quella strada non resta più niente», spiega Tomarchio, entrato a far parte anche del comitato dei terremotati. Stessa storia per la cognata, parrucchiera nella bottega accanto. Subito dopo la scossa, si è discusso di far arrivare dei container per ospitare commercianti e artigiani. «Ci sembrava una buona soluzione, ma poi abbiamo rifiutato – rivela il barbiere – perché temiamo che tutto ciò che è provvisorio poi diventi definivo».
Le barbe da tagliare, intanto, diventano emblema della tenacia di Fleri. I pompieri, pochi giorni dopo il terremoto, hanno recuperato una delle poltrone da barbiere di Tomarchio. E così qualche amico ha potuto comunque accedere ai suoi servizi, nell’improvvisata sede di un laboratorio per la produzione di miele, sempre di proprietà della famiglia, senza danni sebbene a poca distanza da via Vittorio Emanuele. «Un modo per dire che non ci fermiamo, certo così non posso fare il mio lavoro», ribadisce il barbiere, criticando anche la «grande confusione» nella gestione dell’emergenza: «Non sappiamo chi deve demolire le case o darci risposte, da tutti gli enti preposti ci arrivano notizie tutte diverse». Quando invece, dal punto di vista di chi il terremoto lo vive sulla propria pelle, basterebbe tenere presente che l’obiettivo è uno: riprendersi Fleri. «Non possiamo permettere che la comunità vada in estinzione – aggiunge Tomarchio – io voglio tornare nel mio salone, dal paese non vogliamo andarcene».
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