«Sono tante le argomentazioni che abbiamo esposto al giudice che sono incompatibili con il reato di cui è accusato Emilio Coveri». Il presidente dell’associazione Exit-Italia che, nel processo con rito abbreviato, è imputato per l’istigazione al suicidio di Alessandra Giordano, la maestra paternese 47enne morta il 27 marzo del 2019 in Svizzera nella struttura Dignitas. A presentare l’esposto da cui è partita l’inchiesta erano stati i familiari della donna – due fratelli, la sorella e la madre – che si sono costituiti parte civile nel procedimento. Durante l’ultima udienza che si è svolta lo scorso 16 settembre, a prendere la parola sono stati proprio gli avvocati difensori Arianna Corcelli e Roberto Mordà.
Per Coveri la procura ha chiesto una condanna a tre anni e quattro mesi di carcere. Per l’accusa, non avrebbe fornito aiuto materiale – anche perché Coveri e Giordano non si sono mai visti di presenza – ma avrebbe «rafforzato il proposito di suicidio […]. Intratteneva con la Giordano plurimi rapporti e conversazioni telefoniche, via sms e posta elettronica dal 2017 al 2019; induceva la Giordano, sofferente per forme depressive e sindrome di Eagle (una nevralgia facciale atipica, ndr), a iscriversi alla associazione Exit; condotte accompagnate da sollecitazioni e argomentazioni in ordine alla legittimità, anche etica, della scelta suicidiaria». Durante l’interrogatorio, Coveri si era difeso negando l’istigazione e le sollecitazioni. Le stesse argomentazioni sono state portate avanti dai legali che lo difendono. «Da alcune conversazioni della Giordano con altre persone si evince che, già nel dicembre del 2017, aveva deciso di sottoporsi al suicidio assistito, scelta – sottolineano gli avvocati – di cui parenti e amici erano a conoscenza».
Stando a quanto ricostruito, la prima telefonata con Coveri avviene nel periodo di Natale del 2017. Escluso questo primo contatto, nel periodo che va dall’aprile all’agosto del 2018 sono 25 in tutto le chiamate che Giordano avrebbe fatto al presidente di Exit Italia. «Sono tutte concentrate in questi quattro mesi e mezzo – spiega l’avvocata Corcelli a MeridioNews – e, inoltre, dieci di queste sono a minuti zero. Quelle invece che Coveri fa alla donna, nello stesso periodo di tempo, sono solo sei. Molte delle quali sono telefonate fatte dopo non avere risposto a una chiamata ricevuta». Nello stesso arco temporale, che si ferma a sette mesi prima del suicidio assistito in Svizzera, Giordano invia a Coveri cinque messaggi per chiedere ulteriori informazioni. «Lui non ha mai risposto perché, anche in generale, essendo ipovedente preferisce non usare l’app per il cellulare perché spesso scrive male sotto dettatura». Infine, per l’accusa ci sarebbero anche delle mail che Coveri avrebbe mandato alla donna. «In realtà, quelle sono le newsletter che l’associazione manda periodicamente a tutti gli associati», hanno ribadito gli avvocati.
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