Strage torre di Genova, madre siciliana cerca la verità «Giustizia insabbiata, perché quel porto non va toccato»

Sono le ore 22, 59 minuti e 42 secondi del 7 maggio 2013 quando la Jolly Nero, motonave della società di navigazione Ignazio Messina & C, durante la manovra di uscita dal porto di Genova, urta, abbattendola, la torre piloti, provocando la morte di nove persone. Tra queste, il sottocapo di seconda classe della Capitaneria di porto Giuseppe Tusa, 30enne di Milazzo, rimasto intrappolato dentro un ascensore. C’è un messinese anche tra i quattro feriti, l’allora 32enne Gabriele Russo, anch’egli sottocapo di seconda classe.

A due anni esatti – l’anniversario ricorreva due giorni fa – «sebbene siano state concluse le indagini, non si ha idea di quando verrà fissata l’udienza preliminare». A parlare è Goffredo D’Antona, legale incaricato da Adele Chiello, madre di Giuseppe Tusa. Ma c’è di peggio, secondo la donna e il suo avvocato «la procura di Genova ha messo sotto accusa solo i responsabili della manovra della nave. Secondo noi – affermano – invece occorrerebbe accertare le responsabilità di chi, quella torre, l’ha costruita. Una torre di 40 metri sul ciglio del molo Giano, senza alcuna barriera, all’uscita del porto».

Che l’opera fosse di per sé pericolosa, secondo D’Antona, lo rivelerebbe un precedente: «Dopo qualche anno dall’inaugurazione (avvenuta il 23 novembre 1996, ndr.), una nave, durante una manovra, la urtò. Per un caso la torre non crollò. Ma era evidente che quell’incidente poteva ripetersi e nessuno ha posto le cautele per evitarlo». Secondo Adele Chiello Tusa e il suo legale, insomma, responsabile della morte del 30enne milazzese e di altre otto persone sarebbe anche chi ha edificato in quel punto, senza far nulla per evitare la collisione. Nel mirino ci sono «l’Autorità portuale e la Capitaneria di porto di Genova».

«Da un anno siamo alla ricerca dei progetti della torre – prosegue l’avvocato catanese – abbiamo fatto due diffide ai danni dell’Authority e l’abbiamo denunciata per omissione in atti d’ufficio. Solo dopo abbiamo ottenuto le carte. Così, abbiamo fatto fare una perizia e proceduto all’ampliamento della vecchia denuncia contro chi l’ha costruita». 

La sensazione, riferisce l’avvocato, è di trovarsi davanti a un muro di gomma. Un po’ come è stato per Ustica, il Vajont, il Cermis, Portella della Ginestra: «I responsabili non sono mai stati individuati o, comunque, colpiti». «Nonostante le nostre istanze – aggiunge – la procura di Genova non ha mai trattato questo aspetto. Si è limitata a indagare i responsabili della manovra della Jolly Nero. Per questa ragione, abbiamo chiesto l’avocazione del procedimento da parte della Procura generale, i primi dello scorso aprile. C’è un mese di tempo per pronunziarsi ma ancora non abbiamo nessuna notizia. Nel frattempo, concluse le indagini preliminari, aspettiamo la fissazione dell’udienza».

Adele Chiello Tusa, 59 anni, madre di altre due figlie, non esita a parlare di «giustizia insabbiata all’italiana» e di un «porto che non va toccato». «Era prevedibile che nessuno, tra i rappresentanti delle istituzioni, alzasse un dito perché si evitasse tutto. Mio figlio lo avevo consegnato loro con la mano. Lo avevo accompagnato io stessa al concorso di Foligno, a 18 anni appena compiuti. Non aveva mai varcato lo Stretto da solo. Me lo hanno riconsegnato in una cassetta di legno, nella stiva di un aereo. Da quel momento, in quanto parte lesa, devo pure lottare per fare emergere la verità».

La donna si dice molto «arrabbiata»: «Ho rispetto dei valori e una modesta intelligenza che nessuno deve insultare». Si riferisce anche alla corrispondenza occorsa con l’ex presidente della Repubblica, pochi giorni prima dello scorso Natale: «Ho scritto personalmente a Giorgio Napolitano poiché, davanti alla bara di mio figlio, mi aveva promesso un processo rapido e cristallino. Non ho visto né l’uno, né l’altro. Dopo due anni di esposti, querele, diffide, gli ho scritto per chiedergli conto del mancato rispetto degli impegni presi. Dopo tre giorni è arrivata la risposta: “Non posso intromettermi – ha detto – perché la magistratura è un organismo indipendente”. Ha fatto la scoperta dell’acqua calda. Allora perché ha promesso ciò che non poteva mantenere?».

«Sono stata orfana a mia volta, sono vedova – insiste – ma la morte di mio figlio va contro natura. L’ultima volta che l’ho visto è stato in occasione di Capodanno. Preferiva tornare in quel periodo perché si divertiva di più. Faceva il dj, componeva musica. Era arrivato a Milazzo il 28 dicembre 2012 ed è ripartito il successivo 26 gennaio, il giorno dopo il mio compleanno. Quando ci siamo salutati, ironia della sorte, era proprio davanti all’ascensore di casa, prima che gli amici lo accompagnassero in stazione. Sarebbe dovuto tornare il 18 maggio».

Dopo quel 7 maggio 2013, la maggior parte degli attestati di chi lo conosceva ricordava la sua educazione: «Una cosa per me scontata – conclude la madre – eppure mi fecero notare che non è una qualità poi così comune. Al punto che, un suo superiore, in una lettera, mi ha contestato che, con la mia costante ricerca della verità, starei minando la sua memoria. Ma mio figlio aveva dei principi, non tollerava le ingiustizie. Lui per primo non sarebbe passato su certe cose. Per molto meno ha fatto molto di più. Proprio quando aveva 9 anni, un suo compagno gli rubò un bloc notes. Lui inscenò un processo e si autodefinì giudice accusatore. Praticamente, un Pm. Riportò tutto per iscritto e concluse così la sua arringa: Tutti abbiamo diritto a una giustizia perché la giustizia è uguale per tutti».

Fabio Bonasera

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