Le atrocità della guerra in Siria, il lungo viaggio nel deserto e, infine, la paura di non farcela in balia delle onde nel mezzo del Mediterraneo. Poi, ecco la speranza riaccendersi: una nave dell’operazione Mare Nostrum. Una fortuna ma anche, forse, l’ennesima beffa del destino per Nisrin e la sua famiglia in viaggio assieme a un gruppo di siriani, una cinquantina, che appena sbarcati in Sicilia hanno denunciato i propri salvatori per il furto di denaro e gioielli, per un valore di circa 50mila euro. L’episodio rivelato dal gruppo di siriani ripescati la notte tra il 23 e il 24 ottobre di due anni fa, a bordo della Chimera, nave della Marina militare italiana, vede coinvolti 8 militari italiani e sarà un processo, il 29 settembre, a stabilire cosa accadde effettivamente quella notte.
La storia di Nisrin, seppur a lieto fine, fuggita non per fame ma per sottrarsi alle atrocità della guerra, comincia molto prima. Sulla trentina, gli occhi scurissimi, come i capelli raccolti sotto il velo che la copre interamente, fanno capolino soltanto il viso e le mani, sottilissime. Magra e timidissima, veste in modo tradizionale, nessuna concessione alla moda occidentale. È scappata assieme alla sua famiglia due anni fa, dopo che la guerra aveva devastato il suo Paese. Prima, però, la vita era felice e serena a Damasco. Il padre gestiva un negozio di telefonini mentre i tre fratelli maggiori lavoravano: il più grande come ingegnere elettronico, gli altri come sarti in un’azienda di abbigliamento. Poi, dal 2011, gli scontri con l’esercito del presidente Bashar al Assad, i bombardamenti e i rastrellamenti dei militari, all’ordine del giorno.
Come nel caso del marito della sorella più piccola di Nisrin: «È stato arrestato dal governo e di lui non si è saputo più nulla». Di origini curde, il cognato è stato fermato due volte dalla polizia. «La prima volta è stato fortunato – ricorda -, è tornato a casa per rivelare le violenze subite durante la prigionia: picchiato e torturato con chiodi incandescenti, accusato di esser un trafficante d’armi lui, che, in realtà, era un muratore». La seconda volta non è più tornato. La moglie ora vive in Olanda con le due figlie, assieme al resto della famiglia. Fuggita dalla Siria, come tutta la famiglia, la sorella ha attraversato il Libano, l’Egitto e poi, infine la Libia. La sorella maggiore di Nisrin, invece, non vuole lasciare il Sudan per stare vicino al marito, paralizzato dalla vita in giù in seguito a un ictus provocato da uno shock.
«Un giorno i militari hanno fermato alcuni giovani nel nostro quartiere. Tra loro c’era anche mio cognato. Prima li hanno picchiati e poi ad alcuni, tra cui un suo amico e il suo bambino, hanno tagliato la gola». L’orrore così forte lo ha segnato tanto da convincere il resto della famiglia a scappare via. Un lungo viaggio cominciato nel gennaio del 2013 verso la Giordania e poi l’Egitto. Obiettivo la Libia, da dove partono tutte le navi della speranza, ma la loro si ferma lì. «Siamo stati bloccati alla frontiera per cinque giorni, quindi siamo tornati in Egitto, dove siamo rimasti per ben due mesi». Qui un’altra tragedia: «Mia nipote di cinque anni, durante uno spostamento, è annegata cadendo in un pozzo». Ma non c’è tempo per le lacrime, bisogna muoversi. Rientrano in Libia, dove rimangono sette mesi anche se non si sentono al sicuro. «C’erano troppi scontri e troppe sparatorie». Non resta che una sola via: il mare.
Così vengono caricati su una piccolissima imbarcazione: sono stretti, gomito a gomito. «Il viaggio è durato due giorni, in balia delle onde. All’inizio del terzo giorno, lo scafo ha iniziato ad imbarcare acqua, stavamo affondando». Fortunatamente, a salvarli è arrivata una nave della Marina militare italiana. «Siamo rimasti a bordo dodici ore, poi ci hanno portato ad Agrigento ma al momento dello sbarco, quando ci hanno ridato le nostre borse, abbiamo scoperto che i nostri soldi e oggetti di valore erano spariti».
La storia di Nisrin non finisce qui e, dopo tanto orrore, finalmente, alcuni momenti di felicità. Dopo cinque giorni nel centro di accoglienza di Agrigento, lei e la sua famiglia vengono trasferiti in un piccolo paese nel Palermitano. Qui rimangono per tre mesi, poi la famiglia di Nisrin parte per l’Olanda, dove si trova tuttora. Lei decide di rimanere ma non da sola. «Non sono partita perché ho trovato l’amore, una persona che mi vuole bene e mi sta vicino per la richiesta dei documenti». La prima volta che l’ha vista, un tunisino suo coetaneo se n’è innamorato perdutamente e ha chiesto la mano al padre. «Sposarci non è stato possibile perché non c’è modo di ottenere dalla Siria i documenti necessari ma abbiamo deciso di farlo ugualmente ricorrendo al rito orale che nella nostra fede islamica è accettato».
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