Avrebbe dovuto iniziare oggi il processo d’Appello per l’omicidio colposo di Stefano Biondo, il 21enne siracusano disabile psichico morto il 25 gennaio del 2011 nella comunità alloggio dove era stato ricoverato il giorno prima, dopo tre anni nel reparto di Psichiatria dell’ospedale Umberto I. In primo grado, l’infermiere dell’Asp di Siracusa Giuseppe Alicata, accusato di avere soffocato il giovane con una manovra a tenaglia per fermare una crisi, è stato condannato a due anni di reclusione. Una sentenza che era stata impugnata con un ricorso dall’imputato. L’udienza prevista per questa mattina al tribunale di Catania, però, è saltata per un rinvio tecnico ed è stata spostata a data da destinarsi.
Una storia che rischiava di chiudersi con una richiesta di archiviazione a cui poi si era opposta la sorella del 21enne, Rossana La Monica, assistita dall’avvocato Massimo Lo Vecchio. «La vicenda giudiziaria di mio fratello non è stata quella che speravamo», dice la sorella ricordando anche che il pubblico ministero aveva chiesto per l’imputato una condanna a diciotto mesi di reclusione. «Una pena che non danno nemmeno per un furto di arance – critica La Monica – Chiediamo giustizia e chiarezza sulle circostanze e le responsabilità che hanno portato alla morte di Stefano, proprio nel luogo dove, in teoria, avrebbe dovuto essere più protetto».
Dalla richiesta di archiviazione agli innumerevoli rinvii, sono passati più di 13 anni «e l’infermiere che ha tolto la vita a mio fratello, soffocandolo, non ha passato un solo minuto in carcere e c’è il rischio che non lo faccia mai più», sottolinea la sorella che ha fondato l’associazione Astrea con cui continua a occuparsi di persone in difficoltà, con un occhio particolare per la disabilità. «Mio fratello era un disabile psichico e per questo figlio di un dio minore. Oggi più che mai – aggiunge – siamo consapevoli che per lui ha fallito la natura, ha fallito la sanità e purtroppo ha fallito anche la giustizia».
A tratti autistico e a tratti schizofrenico, i medici non sono stati mai in grado di dare una versione univoca della malattia di Stefano Biondo. Dopo tre anni passati nel reparto di Psichiatria dell’ospedale, il 24 gennaio del 2011 viene trasferito in una comunità alloggio adatta alla sua condizione psicofisica. L’indomani pomeriggio, la sorella riceva un’allarmante chiamata da un’operatrice della struttura: Stefano si è sentito male. Quando entra nella stanza, La Monica lo trova steso sul pavimento, cianotico e legato con un cavo elettrico. «Accanto a lui c’era un infermiere (l’uomo già condannato in primo grado per l’omicidio colposo, ndr), lo stesso con cui durante il periodo del ricovero ospedaliero – aveva raccontato la sorella a MeridioNews – aveva avuto uno screzio con Stefano». Con un corso di primo soccorso alle spalle, è la sorella a cercare di rianimare il 21enne «mentre loro, per tranquillizzarmi, mi dicevano che stava così perché gli avevano somministrato un forte sedativo».
Quando – dopo mezz’ora – arriva l’ambulanza senza medico e senza defibrillatore, per Stefano Biondo non c’è più nulla da fare. Si leggerà poi nei referti dell’autopsia che si è trattato di una morte per asfissia meccanica da soffocamento causata o dalla chiusura diretta di naso e bocca o dalla compressione della gabbia toracica. «Stefano stava disegnando – ricostruisce la sorella sulla base dei racconti di chi ha assistito alla scena – quando a un certo punto ha sollevato il tavolo e lo ha lasciato cadere. A quel punto, l’infermiere lo avrebbe buttato a terra, gli avrebbe messo il braccio intorno al collo e, con la manovra a tenaglia, lo avrebbe soffocato. Poi gli sarebbe salito sopra comprimendo la gabbia toracica». Una versione che è stata confermata anche da diversi testimoni durante il processo di primo grado. «La morte è stata solo il culmine di un calvario tra il disinteresse generale e la sofferenza di una intera famiglia. Cosa intendiamo fare – conclude la sorella in attesa dell’inizio del processo d’Appello – perché questo non accada più?».
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