«L’invito al dialogo che i carabinieri fecero arrivare al boss Totò Riina dopo la strage di Capaci sarebbe l’elemento di novità che indusse Cosa nostra ad accelerare i tempi dell’eliminazione di Paolo Borsellino». Queste le conclusioni a cui sono giunti i giudici della Corte d’assise di Palermo che hanno depositato oggi, la motivazione della sentenza sulla trattativa Stato-mafia. Per la corte, infatti, anche se «non si volesse prevenire alla conclusione dell’accusa che Riina abbia deciso di uccidere Borsellino temendo la sua opposizione alla ‘trattativa’, in ogni caso non c’è dubbio che quell’invito al dialogo pervenuto dai carabinieri attraverso Vito Ciancimino costituisca un sicuro elemento di novità che può certamente avere determinato l’effetto dell’accelerazione dell’omicidio di Borsellino. Con la finalità di approfittare di quel segnale di debolezza proveniente dalle istituzioni dello Stato e di lucrare, quindi, nel tempo dopo quell’ulteriore manifestazione di incontenibile violenza concretizzatasi nella strage di via d’Amelio, maggiori vantaggi rispetto a quelli che sul momento avrebbero potuto determinarsi in senso negativo».
I giudici, poi, smontano le tesi dei legali degli imputati che attribuivano l‘accelerazione dei tempi della strage all’indagine mafia-appalti che il magistrato stava effettuando e anche alla possibilità di una sua nomina a Procuratore Nazionale Antimafia. Tra gli altri elementi che emergono dalle motivazioni depositati dalla Corte, anche il ruolo del braccio destro di Berlusconi che avrebbe rafforzato i piani del boss Riina: «Con l’apertura alle esigenze dell’associazione mafiosa Cosa nostra, manifestata da Dell’Utri nella sua funziona di intermediario dell’imprenditore Silvio Berlusconi nel frattempo sceso in campo in vista delle politiche del 1994, si rafforza il proposito criminoso dei vertici mafiosi di proseguire con la strategia ricattatoria iniziata da Riina nel 1992». Rapporti con Cosa nostra di cui secondo i giudici era a conoscenza di Berlusconi: «Se pure non vi è prova diretta dell’inoltro della minaccia mafiosa da Dell’Utri a Berlusconi, perché solo loro sanno i contenuti dei loro colloqui, ci sono ragioni logico-fattuali che inducono a non dubitare che Dell’Utri abbia riferito a Berlusconi quanto di volta in volta emergeva dai suoi rapporti con l’associazione mafiosa Cosa nostra mediati da Vittorio Mangano».
L’ex senatore, proseguono i giudici, ha svolto con continuità almeno fino al 1994 il ruolo di intermediario tra interessi di Cosa nostra e quelli di Berlusconi e ciò sarebbe dimostrato dall’esborso di ingenti somme di denaro da parte delle società di Berlusconi poi versate o fatte arrivare a Cosa nostra. «Tali pagamenti sono proseguiti almeno fino a dicembre del 1994 – scrivono i giudici – quando a Di Natale fu fatto annotare il pagamento di 250 milioni nel libro mastro che questi gestiva». «Si ha la conferma – prosegue la sentenza – che sino alla predetta data Dell’Utri, che faceva da intermediario di cosa nostra per i pagamenti, riferiva a Berlusconi riguardo ai rapporti coi mafiosi ottenendone le necessarie somme di denaro e l’autorizzazione a versarle a cosa nostra».
La corte, infine, conclude che «vi è la prova che Dell’Utri interloquiva con Berlusconi anche al riguardo al denaro da versare ai mafiosi ancora nello stesso periodo temporale nel quale incontrava Mangano per le problematiche relative alle iniziative legislative che i mafiosi si attendevano dal governo». Ne sarebbero prova le dichiarazioni del pentito Cucuzza che dice che Dell’Utri informò Mangano di una modifica legislativa in materia di arresti per gli indagati di mafia. «Ciò dimostra – prosegue la corte – che Dell’Utri informava Berlusconi dei suoi rapporti con i clan anche dopo l’insediamento del governo da lui presieduto, perché solo Berlusconi, da premier, avrebbe potuto autorizzare un intervento legislativo come quello tentato e riferirne a Dell’Utri per tranquillizzare i suoi interlocutori».
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