Ci sono Piranha e Tano mafia. Ma anche i meno temibili Schettino, Turi sonda, Candeggina e Ciù ciù. Solo alcuni dei 42 uomini accusati di portare avanti l’attività di spaccio di droga per il clan Cappello-Bonaccorsi e raggiunti oggi da ordinanze di custodia cautelare in carcere nell’operazione Locu della polizia di Catania. Un nome che fa riferimento alla zona della città interessata dal business della droga: il quartiere San Cristoforo, e precisamente le tre piazze di spaccio di via Bonfiglio, via delle Calcare e via Testulla all’angolo con via Alonzo e Consoli. Diverse ma organizzate con un’unica regia secondo «dimensioni industriali». Lì era possibile trovare cocaina, crack, marijuana, skunk e hashish. Droga per lo più spacciata dentro casa, considerate le restrizioni del periodo d’indagine dovute alla pandemia da Covid-19, da maggio del 2020 all’estate del 2021.
Un’organizzazione talmente rodata da avere previsto anche alcune migliorie funzionali all’urbanistica del quartiere. Con la «creazione di nuovi cortili chiusi non censiti e con l’edificazione di cinte murarie e fortificazioni» per facilitare il lavoro delle vedette fisse e di quelle dinamiche, in giro con gli scooter, in contatto tra loro tramite ricetrasmittenti. Un efficiente servizio di sicurezza condiviso dalle varie e poco distanti piazze di spaccio. Organizzate su turni, in modo da assicurare un servizio costante con circa due o tre pusher sempre presenti. Un lavoro impegnativo, basato su turni lunghi anche 14 ore: dalle 6 del mattino alle 20 in una casa in via Bonfiglio e dalle 20 alle 6 del mattino per strada, in via Testulla. O persino un’ora in più, dalle 14 alle 5 del mattino, in via delle Calcare. Con un compito per ciascuno: oltre ai pusher e alle vedette, infatti, erano impiegati i capi piazza, i custodi della droga, i responsabili della raccolta dei soldi e, dietro le quinte, gli addetti all’approvvigionamento dello stupefacente e quello impegnato nel suo confezionamento.
Un impiego adatto solo a veri stakanovisti. «Dove sei? Wan ciù», chiede uno dei responsabili, in un improbabile inglese che starebbe per one-two, uno-due, indicando – secondo gli inquirenti – il tipo di droga da portare: cocaina e crack. «A casa sono, ora ora mi stavo levando le scarpe. Sto ritornando a scendere, quanto voglio bene a te…», è la risposta di un rassegnato affiliato. Turni non proprio da contratto di lavoro e per di più usuranti. Come nel caso di un pusher che chiama per dire di non stare bene, ricevendo la solidarietà di un collega: «È questo tempo, mbare, ti pare cos’è? Ammazza le persone. Oggi, ad esempio, porta venti gradi, siamo morti dal freddo, ti rendi conto?». E senza pensione o congedi retribuiti: «Io sono uscito da dieci mesi, non posseggo nulla, neanche un motorino… Hanno dimenticato a tutti, non è giusto!», commenta uno degli arrestati, non sapendo di essere ascoltato dalle forze dell’ordine.
Un gruppo bene organizzato, con contatti trasversali. «Ho saputo pure che si rifornisce di marijuana da alcuni albanesi che aveva conosciuto al carcere di Piazza Armerina, mentre per la cocaina ha pure un canale con la Calabria», racconta ai magistrati un collaboratore di giustizia a proposito di Cammisa, uno degli arrestati. Per poi sfociare nel gossip, raccontando della storia d’amore tra questo Giovanni e una certa Mimma. Storia su cui avrebbe avuto da ridire – a suon di pugni – il cognato di lei. Raggiunto, per tutta risposta, da alcuni colpi di pistola alle gambe mentre si trovava a Librino. Meglio sarebbe andata a un altro uomo, che si è beccato solo uno schiaffo per una mancata precedenza a un incrocio.
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