Spaccaossa, tutta la crudeltà nella stalla degli orrori «Minchia voci che butterà sta puttana, voglio sentirla»

«Lo facciamo da me, a Carini sempre non può essere compà…Sono arrivato già a Capaci, sono col bambino…con mio nipote, gli sto insegnando il mestiere». Ride Alessio Cappello. Non immagina, probabilmente, che quella telefonata è intercettata. Non lo sa, mentre con la massima tranquillità e con leggerezza si accorda con il suo interlocutore per il luogo in cui inscenare il prossimo finto incidente. L’ennesimo con cui truffare le assicurazioni, a danno di qualche vittima compiacente che, per disperazione, si sarebbe accollato di farsi frantumare qualche osso. Non traspare alcun velo di vergogna, nelle sue parole, nessun pudore nel modo di raccontare quello che per lui sembra quasi un mestiere. Qualcosa, addirittura, da tramandare al nipote, rigorosamente minorenne, che gli siede di fianco a bordo dell’auto.

Spregiudicatezza e crudeltà, insomma, non mancano affatto nelle descrizioni che gli inquirenti restituiscono delle persone coinvolte nell’operazione messa a segno la scorsa notte. Non bastano, infatti, il sangue freddo e la voglia di fare tanti soldi per ferire qualcuno lasciandogli cadere addosso un mattone di tufo o per sfregiargli la faccia con la carta vetrata. Per riuscirci ci vuole almeno una certa dose di cattiveria. E chi stava dietro a un business arrivato addirittura a risarcimenti milionari sembra averne avuta a sufficienza. «Minchia te lo immagini, si deve fare la femmina..», dice intercettato Domenico Cintura. Sono le otto di sera del 26 giugno 2017, e la prossima finta vittima designata è una donna. «È tutta spaventata, non la vedi? – gli risponde compiaciuto Tony Buscemi -. Minchia voci che butterà, questa puttana, a questa la voglio sentire, questa voci butta. Se non glielo rompe a primo colpo consumato è…».

È un tono sprezzante che lascia davvero basiti. Un livello di degrado e di violenza che forse c’eravamo abituati ad aspettarci da criminali di ben altra specie, come i padrini più sanguinari di Cosa nostra. È vero che qui nessuno ha sciolto bambini nell’acido, ma la sfrontatezza con cui deridevano quei disgraziati che decidevano, per disperazione, di farsi rompere le ossa lascia davvero poco all’immaginazione. Le vittime più timorose degli spaccaossa venivano rassicurate, prima di vedersi schiacciate dal mattone di tufo, sarebbero state anestetizzate per sentire meno dolore possibile. Ma questo, puntualmente, non avveniva. «Mi hanno fatto posizionare il braccio su due mattoni di tufo e mi hanno colpito violentemente con un altro mattone della stessa specie per ben tre volte, anche se dopo il primo colpo io avessi chiesto in lacrime di fermarsi – racconta una delle finte vittime -. I tre colpi mi hanno provocato una ferita lacero contusa con forte fuoriuscita di sangue e la frattura del braccio sinistro. Non sono stato anestetizzato…Ricordo che c’era un uomo non molto alto, tarchiato, claudicante, che con ogni probabilità era il proprietario dell’immobile. Proprio questo, molto probabilmente, è stato la persona che mi ha sferrato i colpi con la pietra».

Ma non ci sono solo i racconti delle vittime. A riprova della crudeltà dimostrata ci sono anche le conversazioni ambientali, alcune segnate da reazioni di vero e proprio giubilo dei componenti della banda criminale, in festa per l’esito particolarmente positivo della visita medica di una delle loro finte vittime, che aveva riportato la frattura bimalleolare della caviglia sinistra: «Ti devo dare una bella notizia – racconta un certo Giovanni al telefono con Cintura, ignaro di essere intercettato – abbiamo fatto Over! Lo devono ricoverare e gli devono mettere i perni perché lo devono operare», aggiungendo che il suo piede «era l’arcobaleno» ed era «tutto scassato». Emblematico in questo caso è il ricorso al termine Over – che infatti ha dato il nome all’operazione -, utilizzato nel mondo delle scommesse e anche in questo caso poiché l’esito del referto medico è andato al di là delle loro più rosee aspettative. D’altronde le vittime erano solo delle cartelle cliniche sui cui puntare come nel gioco d’azzardo o nelle scommesse ai cavalli. E forse non è un caso se una delle basi logistiche della banda si trovasse all’interno di un centro scommesse, mentre la stanza delle torture era indicata come la stalla perché all’interno c’era appunto un cavallo.

Un ulteriore dato che emerge dall’analisi degli investigatori è che il gruppo criminale tende ad individuare le persone che versano in condizioni economiche precarie e facilmente condizionabili sotto il profilo psichico. In un caso, ad esempio, una vittima, oltre a essere disoccupata, ha avuto anche un precedente clinico con un tentativo autolesionistico, per assunzione in sovradosaggio di sostanze farmacologiche. In un altro caso ancora Buscemi, nel rivelare i metodi utilizzati dal gruppo criminale, racconta che sarebbe stato coinvolto in un sinistro un soggetto affetto da minorazioni psichiche, al quale «gli hanno rotto piede, femore e polso, ed è una pratica da duecentomila euro e siccome era scappato questo, si era andato a chiudere al manicomio, perché era impazzito. No già è operato e finito. Aspettano solo che entrano i soldi, siccome sono duecentomila euro, si spaventano che scappa. E lo fanno dormire là e gli danno a bere, a mangiare…», per poi dividere i proventi con lo stesso ferito: «…Centomila, però sono tre i soci, trentamila l’uno…».

Nel corso del dialogo, il racconto si fa ancora più dettagliato, con precisi riferimenti a una sorta di soggiogamento esercitato dal gruppo sul povero sventurato: «Se lo vedi, è un pazzo questo. Compà figurati che era impazzito e si era andato a chiudere al reparto di psichiatria a Villa Sofia, e lo hanno trovato là..». L’interessato, a conoscenza dei fatti, ha riferito che la vittima sarebbe stata persino internata all’interno dell’agenzia scommesse per controllarne gli spostamenti in attesa di ricevere il risarcimento danni: «E sono andati a trovarlo al reparto di psichiatria all’ospedale qua al Civico, e se lo coricano adesso loro all’agenzia, per non farlo scappare».

Silvia Buffa

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