Fu ingiusta la condanna di Socrate? Certamente sì. Erano prevenuti i suoi giudici? Senza dubbio! Dunque Socrate avrebbe avuto buoni motivi per cercare di evitare una morte immeritata.
Come sappiamo, Socrate invece accettò il verdetto di condanna e bevve la cicuta. Il perché ce lo spiega lui stesso nel dialogo di Platone, Critone. Invitato dai suoi amici a fuggire, Socrate rifiuta. Perché, dice, commetterebbe uningiustizia; perché, con questo gesto, egli distruggerebbe se stesso, i suoi amici, le leggi e la città intera.
Pensate, chiarisce, che possa sopravvivere e non essere sovvertita, una città in cui le sentenze pronunciate non hanno efficacia e possono essere messe in discussione, invalidate e annullate da privati cittadini?
Oppure che è lecito violare la legge solo perché ci è stata fatta una ingiustizia, essendo stata pronunciata contro di noi una sentenza palesemente scorretta? Ora, argomenta Socrate, quelle stesse leggi che mi hanno fatto nascere, mi hanno allevato, nutrito, difeso, educato, che mi hanno fatto vivere nella libertà, che mi son piaciute; che, in una sola parola, mi hanno reso cittadino, con diritti e doveri, ebbene quelle stesse leggi io le voglio distruggere con un atto di disubbidienza e tuttavia pretendo di continuare a voler essere cittadino per il poco tempo che mi resta da vivere.
Quanti anni luce tra questo altissimo insegnamento e la reazione scomposta, rabbiosa fino allisteria alla quale ci è stato dato di assistere in questi giorni dopo una sentenza di condanna! E per di più con una situazione completamente diversa: lì una condanna a morte da eseguirsi immediatamente, qui una condanna di primo grado, non grave e comunque suscettibile di essere riformata nei successivi due gradi(sempre in forza delle leggi esistenti).
Lì un innocente che si sacrifica nel segno della coerenza morale, qui un innocente (ché tali si è fino al passaggio in giudicato di una sentenza di condanna – anche questa è una previsione di legge – che si scatena senza freni contro i suoi giudici e quindi contro un intero sistema, quello stesso che fino ad adesso, così come per il futuro, in applicazione delle leggi tanto vituperate, lo ha garantito, lo garantisce e lo garantirà.
La differenza tra un cittadino consapevole e un apolide amorale è tutta qui, e, nel caso di un uomo pubblico, è questa la differenza tra uno statista e un politicante di basso conio. Uno statista sa bene quali possono essere le conseguenze delle sue azioni e delle sue affermazioni per il paese e per i suoi concittadini.
Uno statista sa che quando un uomo pubblico che occupa un posto di primo piano nella scena politica afferma che i giudici sono corrotti perché gli hanno inflitto una condanna o, peggio, che i giudici lo hanno condannato perché sono corrotti, o che sono prevenuti nei suoi confronti, minacciando il ricorso alla piazza, autorizza lintera nazione a fare altrettanto.
Uno statista sa che la delegittimazione di uno dei poteri su cui si fonda lo Stato apre in esso una ferita gravissima in termini di fiducia, non solo sullistituzione chiamata in causa, ma anche sulle altre. E così levasione fiscale può diventare, nel giudizio dei singoli, la diretta conseguenza della corruzione dei soggetti preposti alla caccia agli evasori; e così, ancora, il prosperare della criminalità organizzata può essere ritenuta il frutto di collusioni con gli organi preposti alla repressione e così via.
intanto il paese prende a somigliare sempre più ai politici di tal fatta e a riconoscersi in essi, affrettandosi verso la decadenza. La vicenda di questi giorni è figlia di un triste ed illustre precedente.
A conclusione della stagione di tangentopoli, Bettino Craxi, segretario del Partito socialista italiano e già Presidente del Consiglio dei Ministri, fu condannato per corruzione dopo tre gradi di giudizio con sentenza definitiva. La condanna venne emessa in contumacia. Altro che Socrate! Craxi si dette alla latitanza addirittura durante il processo e ben prima della sentenza e, per sua sicurezza assoluta, si rifugiò in un paese che non prevedeva lestradizione, proprio perché i reati per i quali Craxi fu condannato, in quel paese sono normale mezzo di scambio politico affaristico!!
La classe politica italiana, quasi per intero, lungi dal considerare Craxi per come per sentenza era stato definito, o quantomeno accettare la sentenza e trarne ammonimento, la classe politica italiana, dicevo, e segnatamente quella parte di essa che aveva la coda, e non solo la coda di paglia, gridò allingiustizia, bollò come politicizzato loperato di tutti i giudici dei tre gradi di giurisdizione (stiamo parlando di decine di magistrati, come se fosse stata unassociazione a delinquere!), e Craxi, strumentalmente, da corruttore condannato diventò un martire. La sua tomba fu e continua ad essere oggetto di visite interessate e piene di devozione.
Fu quello il primo e terribile caso di corruzione delle leggi e dello Stato. La strada era stata subdolamente aperta e tutta da percorrere, e fu ed è percorsa senza titubanze dalla peggiore politica. Si è passato e si passa dallinsulto alla intimidazione di quel potere al quale bisogna credere, nel quale bisogna confidare, sempre però con la stessa disincantata fede con la quale si deve credere e ci si deve fidare degli altri poteri, e cioè non dimenticando mai che tutti, politici, magistrati, governanti, sono uomini, essere imperfetti.
Singolare è poi il modo con cui la stampa nazionale tratta il tema. Quando facciamo fotografie di uno stesso luogo ognuno di noi, rispetto ad altri, vede, inquadra e fotografa cose diverse, anche se di poco, fossero soltanto sfumature; ci si mette da unangolatura diversa, si cerca una propria luce, si aspetta quello che per noi è lattimo giusto. E il panorama cambia, pur essendo lo stesso. E dunque perché stupirsi se una stessa notizia viene letta, interpretata, e quindi comunicata dopo che la si è passata attraverso il filtro della propria formazione, umana, culturale, dei propri principi e valori etici e dei convincimenti politici, insomma della propria visione del mondo?
Le cose però si guastano quando i giornalisti sono in palese mala fede. Si dice che la stampa libera può essere buona o cattiva, ma che una stampa non libera è certamente cattiva. La risposta alla domanda: quali sono nelle vicende di questi giorni i giornalisti in malafede ce la dà il grande scrittore giornalista e polemista G. K. Chesterton.
Un capitoletto di una sua opera spietatamente ironica, LUtopia degli usurai, è intitolato La tirannia del cattivo giornalismo.
Chesterton scrive: Un poveruomo intelligente non può essere costretto a lodare lanima di un milionario se non a pagamento, come non può essere costretto a vendere il sapone di un milionario, se non a pagamento.
Sante parole!!
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