Sicilia e Islam, binomio antico ma spesso frainteso A Catania l’unico bene testimone del periodo arabo

La Sicilia e l’Islam, un binomio antico quanto mai frainteso. Fa anche comodo tirarlo fuori ogni tanto, per il vezzo tutto nostrano di millantare chissà cosa. Così si finisce per citare la Sicilia araba per decantare la ricchezza dei giardini, le arance, le saje, la poesia. Ma quando l’Islam è un mostro che tortura e violenta, così come i media ci hanno costretto a credere, allora siamo pronti a negare qualsiasi legame con la Sicilia. Un piegarsi alla convenienza che, pur essendo offensivo nei confronti della sicilianità, facciamo fatica a toglierci di dosso. Anche per via di una certa ignoranza sul tema che impedisce ai siciliani di vedere questo binomio nella sua corretta prospettiva, dovremo ammettere. Ad iniziare dalla definizione di Sicilia araba. Un errore che nessuno ha mai avuto l’accortezza di correggere. Eppure Michele Amari tentò di insegnarcelo: Storia dei Musulmani di Sicilia, scriveva a metà Ottocento. Un altro errore che trasciniamo da tempo immemore è associare al periodo di occupazione islamica della Sicilia la sola città di Palermo, peggio ancora nella sua veste normanna: i monumenti indicati come musulmani sono in realtà chiese e palazzi cristiani, tutti realizzati dopo l’istituzione del Regno di Sicilia, a circa 70 anni di distanza dalla conquista cristiana. E invece nella più insospettabile delle città appaiono taluni riferimenti relativi all’età islamica, degni di notevole interesse e costituiscono talvolta importanti primati. Catania, sede dell’iqlim di Ibn Al-Maklati, nel 1040 costituì uno dei maggiori potentati durante la cosiddetta Guerra dei Qa’id e questo non rimase senza lasciare tracce. Qui, come spesso accadde, sorse la cittadella del qa’id a ridosso del porto. 

Le cittadelle prendevano il nome di Medinah: nel caso di Catania è probabile che si chiamasse Medinah el-Fil, città dell’elefante, tradotto in seguito nel latino Civitas, la Civita. Questo quartiere, come appare dalle cartografie più antiche, era caratterizzato da stretti vicoli che sbucavano in cortiletti, ramificati in complessi labirinti urbani. Per contrastare le epidemie di colera, però, le caratteristiche stradine di impianto musulmano vennero ampliate e le casupole di origine medioevale furono demolite, al punto che oggi sono pochi i vicoletti capaci di ricordare la passata storia urbanistica di questa parte di città. Si salvarono due edifici monumentali in qualche modo legati alle vicende musulmane dell’abitato: la Cappella Bonajuto e la Moschea principale

La cappella viene genericamente indicata quale di epoca bizantina, pur mancando elementi di riferimento che consentano un inquadramento cronologico certo: alcuni elementi potrebbero in effetti post-datare l’edificio, come la presenza della colonna alveolata, poco usata in età bizantina, piuttosto diffusa in misura massiccia tramite la diffusione della cultura artistica islamica. Quale che sia la sua corretta datazione, in ogni caso è significativa la presenza di un edificio che ben si presta all’uso di sala di rappresentanza per il governatore locale, dunque non si può escludere che lo stesso Maklati avesse qui il suo palazzo-cittadella e, se originariamente la struttura fosse stata una chiesa, non ci meravigli se i musulmani la sconsacrassero per ricavarne un ambiente palatino, dacché non è un costume insolito anche in altre realtà. Sotto questa prospettiva, la Cappella Bonajuto sarebbe pertanto l’unico vero monumento certamente esistente e utilizzato in età islamica presente in Sicilia, unico vero testimone di detto periodo. 

L’altro edificio che si salvò fu la Majid Ğama, la moschea del venerdì, ossia l’edificio adibito al culto comunitario. Nel 1173, nel pieno delle sommosse causate dalla componente longobarda la quale mal sopportava la convivenza con i musulmani, il vescovo etneo Roberto, schierato apertamente con le posizioni drastiche della chiesa inglese, requisì la moschea per ricavarne il culto a Thomas Becket, morto appena tre anni prima. L’antisemitismo di Roberto appare evidente nel gesto di colpire la moschea principale. L’edificio subì poi il sisma del 1693 e venne rifondato sotto il titolo di Sant’Andrea appena sette anni dopo, conservando parti e reliquie originali. Ancora nel 1900 la chiesa di San Tommaso appare attiva e in ottime condizioni. Inspiegabilmente però l’edificio sparisce prima del 1976, anno in cui viene posta una edicola votiva a S. Masi (Tommaso), sulla facciata di un’anonima palazzina che ha rimpiazzato l’antica chiesa. 

La memoria di quel periodo in cui Catania parlava lingua araba e professava la religione islamica venne cancellata senza rumore. Ma il binomio Sicilia e Islam non si spense nel lontano 1239, con le deportazioni forzate di Federico II, così oggi a Catania esiste una nuova e florida comunità di questa religione incompresa dalla prospettiva del mondo occidentale, che vide sorgere la prima moschea moderna d’Italia, edificio però politicizzato e per questo chiuse per mancanza di fedeli, e in anni più recenti la più grande moschea del Mezzogiorno, nata con grande sacrificio e molta attesa, con i migliori propositi di comunicazione e integrazione tra le culture, in nome di un rispetto reciproco che popolarmente si attribuisce propriamente al periodo islamico della Sicilia.

Iorga Prato

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