Sicilia e ‘dimenticanze’ della storia ufficiale

Una premessa è d’obbligo: il Risorgimento, al di là di interpretazioni più o meno faziose, appartiene ormai alla lunga, difficile ma anche esaltante storia del popolo italiano. Senza l’epopea risorgimentale e garibaldina gli italiani, nella stragrande maggioranza, non avrebbero coronato il loro sogno di dare vita ad uno Stato unitario senza squilibri economici e sociali in grado di contare davvero nello scacchiere internazionale. Troppe divisioni, egoismi, municipalismi ed una miriade di staterelli senza alcun ruolo hanno reso, per lunghi secoli, il territorio italiano preda di potenze straniere e dei loro vassalli in suolo italico, che poco hanno dato e moltissimo prelevato e saccheggiato. Hanno offeso la dignità degli italiani, il concetto di nazione, la loro autonomia, l’autodeterminazione, negando loro le libertà civili e politiche asservendoli, usando sovente metodi repressivi inumani e di una ferocia inaudita.

Si può essere d’accordo o in perfetto dissenso con la premessa, purché non si metta in discussione il valore dell’unità nazionale ed il disegno politico lungimirante che la determinò. Una cosa è avere un approccio, non solo sul piano storico, intriso di retorica o, se si vuole, con punte di vera e propria ipocrisia che rasenta il ridicolo (stendere un velo pietoso su tutte le azioni che hanno provocato dolore, scontri sociali, lutti, odio di classe. Nulla a che vedere con l’etica e la morale); altra cosa è manifestare opinioni che si fondano su un ragionamento responsabile, pacato, distaccato e veritiero che, pur riconoscendo l’alto valore del risultato conseguito (appunto l’unità del Paese), al tempo stesso, non lesinano critiche, anche aspre, su questioni e fatti che nulla hanno a che vedere con gli ideali e con l’obiettivo di edificare lo Stato unitario. Una visione laica e non dogmatica che punta alla ricerca della verità per trasmettere la memoria (degli avvenimenti pre e post unitari) capace di mobilitare le coscienze e di suscitare interesse e passioni soprattutto fra le giovani generazioni.

Come tutte le cose umane, anche il nostro Risorgimento si contraddistingue per tante cose positive e per molti fatti negativi che ne oscurano, talvolta, l’importanza e la valenza. Non tutto quello che emerge storicamente sono rose e fiori. C’è dell’altro che non fa onore a quanti si sono prodigati, con realismo, ma anche con tanta passione civile, per dare una patria agli italiani. La storiografia ufficiale per anni ha accreditato una versione che appare rivolta ad esaltare aspetti retoricamente patriottistici, il mito dell’eroe invitto, il ruolo dell’elite economico e culturale così come “preteso” dai vincitori. Pochissimo spazio è stato dedicato, invece, ai vinti e alle tante “nefandezze” perpetrate da chi comandava che spesso, nei fatti, hanno “deturpato” non poco l’immagine di un percorso storico e politico che, comunque, rimane di prima grandezza.

Anche le celebrazioni per il 150° anniversario della proclamazione dell’unità del Paese, pur dando atto di molte cose positive, sono state “macchiate” da una retorica fuori luogo che, anziché suscitare entusiasmi, ha provocato nella popolazione, a parte qualche raro incontro di livello, estemporanee adesioni, peraltro fredde e distaccate, verso le numerose e costose manifestazioni. Si poteva fare di più e meglio. Soprattutto si è persa una buona occasione per fare dibattiti ed analisi critiche, senza infingimenti, in grado di raccontare tutta la verità, senza se e senza ma, sul lungo percorso risorgimentale, sui suoi protagonisti ed artefici. Invece hanno prevalso temi marginali e scontati che non sembrano aver rafforzato il concetto di appartenenza ad una comunità nazionale, di Stato, di coesione sociale, di equilibrio territoriale ed economico. Nessuna vera autocritica è stata compiuta nelle sedi opportune per evitare di continuare a ripetere errori su errori. E’ sembrato prevalere il rimpianto, il facile piagnisteo, un rivendicazionismo di stampo municipalistico o macroregionale (l’immaginaria Padania della Lega). Dopo 150 anni tutto ciò è davvero troppo: attratti da speciose polemiche e da divisioni faziose, gli italiani (una buona parte di essi) non comprendono che le vie della modernizzazione e dello sviluppo meritano scelte di qualità nei comportamenti pubblici e privati, nella politica, nei rapporti economici, nei gangli del potere bancario ed industriale, nella pubblica amministrazione, nei rapporti sociali e culturali.

Continuare a parlar male di Garibaldi o di Vittorio Emanuele II non porta, secondo me, da nessuna parte. Se serve alla ricerca della verità storica, può senz’altro essere accettato. Ma se si usa tale modo di relazionare per alimentare ritardate e nocive divisioni, ripicche o, peggio ancora, nostalgici ed ingiustificati ricordi, allora, per il bene del Paese e per la sua coesione, è meglio lasciare perdere.

Trovo, pertanto, giustificata l’indignazione di Giulio Ambrosetti riguardo i restauri, con fondi pubblici, del monumento a Vittorio Emanuele II davanti la stazione centrale di Palermo o della stele dedicata ai martiri della libertà collocata in Piazza Indipendenza. Non tanto perché Re Vittorio, il cosiddetto Padre della Patria, non lo meriterebbe per i motivi elencati da Ambrosetti (che in parte condivido), quanto perché con le somme stanziate si potevano, dopo aver stilato un elenco delle priorità, restaurare e ricostruire i mezzi busti (vandalizzati!) e i monumenti quasi distrutti (collocati nelle ville pubbliche di Palermo) dedicati ai tanti patrioti siciliani che meritano (loro sì) di essere ricordati ai posteri per il contributo dato alla causa unitaria e all’affermazione della libertà nel nostro Paese. Alcuni di loro furono passati per le armi senza processo o perirono eroicamente nel corso di conflitti a fuoco: una morte atroce in conseguenza del loro disinteressato impegno ideale e civile. Dare visibilità postuma a questi eroi che combatterono davvero per fare l’Italia, sarebbe stato un modo serio e rigoroso di raccontare la storia con verità e giustizia. Non è possibile ricordare i soliti noti a scapito di chi ha più titoli per essere additato come esempio da seguire.

Avrei preferito, inoltre, che venissero organizzati incontri pubblici per raccontare alle giovani generazioni avvenimenti scarsamente citati o che non si trovano nei libri di storia e tuttavia dopo 150 anni è davvero ignobile non parlarne. Mi riferisco alla strage palermitana del 1866 (la c.d. rivolta del 7 ½, in quanto durò sette giorni e mezzo) in cui migliaia di cittadini morirono o furono arrestati perché vollero denunciare “i tradimenti” perpetrati dello Stato sabaudo senza tenere conto degli impegni e delle promesse di Garibaldi. Oppure alla drammatica repressione di Bronte nella quale si distinse per ferocia il garibaldino Nino Bixio. Ed ancora le vicende torbide di Castellammare del Golfo, di Alcara li Fusi, l’affondamento della nave nella quale viaggiava l’ufficiale garibaldino e scrittore Ippolito Nievo con le carte sull’uso scorretto del danaro pubblico nel periodo della dittatura garibaldina. Insomma molti episodi di cui si omette il racconto perché così hanno voluto i vincitori e quanti pensano che non “lavando i panni sporchi” in pubblico, si renda un “servizio” alla democrazia italiana e alla “verità” storica.

Dunque non me la prenderei tanto con Vittorio Emanuele, quanto con chi pretende di raccontare la storia con gravi omissioni e dimenticanze. Un modo sbagliato di agire che alimenta il distacco dalla storia d’Italia con tutte le sue numerose luci ed ombre. Altro che rafforzare l’identità nazionale e l’unità del Paese, proprio mentre grandi sfide insidiano l’Italia intera, da nord a sud isole comprese.

 

 

 

 

Lino Buscemi

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