Sicilia, come salvare agricoltura e pesca?

Da qualche giorno, su facebook, ‘circola’ un video nel quale il ‘nostro’ Presidente del Consiglio dei ministri, Mario Monti, ci spiega che le crisi economiche e finanziarie, in Europa, servono per convincere i Paesi della stessa Unione Europea a cedere quote di sovranità nazionale e di sovranità popolare alla stessa Unione.
Di per sé il discorso, benché democraticamente osceno (in senso etimologico del termine: “fuori dalla scena”: in questo caso, fuori dalla scena di un consesso democratico), non è nuovo, perché chi ha un po’ di sale in zucca ha capito che le crisi economiche e finanziarie dell’Europa sono state e continuano ad essere manovrate da quelle banche delle quali il nostro capo del governo è espressione. In questa sede, quello che ci preme far notare non è l’antidemocraticità dell’attuale Unione Europea – elemento acclarato e fuori discussione da quando è stato deciso che l’esecutivo prima della Cee e poi dell’Unione Europea non sarebbe stato eletto democraticamente, ma ‘designato’ dalle varie massonerie e dai vari potentati economici e finanziari che oggi governano – ma gli effetti che la cessione di sovranità nazionale hanno già provocato in Sicilia.
Quando parliamo di sovranità nazionale non ci riferiamo a quella italiana, ma a quella siciliana, ovvero alla ‘Nazione’ individuata dai Padri dello Statuto siciliano. In agricoltuta – anche se molti se lo dimenticano – la Sicilia gode di un’ampia potestà legislativa: quella potestà legislativa che le ha consentito, per esempio, di approvare, nel 1950, una legge regionale di riforma agraria che ha anticipato di ben 12 anni la legge nazionale. Con la differenza che la legge voluta, di fatto, dall’allora assessore regionale all’Agricoltura, Silvio Milazzo, pur con tutti i limiti (non ci dimentichiamo che la mafia agraria, allora ancora fortissima, aveva abbandonato la tradizione liberale-risorgimentale, alla quale era stata per lunghi anni legata, ed era passata – anche se con modalità improprie – nella Dc sulla base della promessa che certi interessi non sarebbero stati intaccati), era una legge vera, che intaccò, almeno in parte, le rendite di posizione degli agrari siciliani; mentre la legge nazionale – la legge Segni – venne chiamata legge-stralcio proprio perché le parti più importanti di tale legge (a cominciare dagli espropri di un certo peso) vennero, per l’appunto, stralciate.
L’agricoltura siciliana non ha mai brillato. Ma la crisi vera – qualcuno ricorderà, tra la fine degli anni ‘70 e i primi anni ‘80, la legge nazionale detta ‘Quadrifoglio’ – comincia negli anni ‘80, quando inizia una consistente cessione di sovranità regionale, in materia di agricoltura, alla Cee. Il meccanismo con il quale la Cee è entrata nelle ‘case’ degli agricoltori italiani – e in particolare di quelli del Sud Italia, a cominciare della Sicilia – è stato subdolo. Si consentiva l’entrata, nell’area Cee, di prodotti agricoli da alcuni Paesi non comunitari in cambio di un sostegno diretto a quelle produzioni che venivano penalizzate. In pratica, un principio-cardine della Cee – il principio di preferenza comunitaria, ossia la difesa delle produzioni europea dall’arrivo di produzioni agricole prodotte a costi più bassi, spesso in dumping – veniva sbaraccato e monetizzato.
Chi scrive, in quegli anni, lavorava per un mensile di agricoltura regionale e collaborava con un settimanale di agricoltura. Non sfuggiva agli osservatori di allora che le produzioni agricole prodotte in altre parti del mondo, entrando nell’area Cee, colpivano quasi esclusivamente le agricolture mediterranee. Tant’è vero che, in quegli anni, l’arrivo di limoni, arance e mandarini aveva messo in ginocchio quasi tutta l’agrumicoltura del Sud d’Italia. Fatto, questo, accettato dalla politica nazionale e siciliana, che in cambio aveva ottenuto l’apertura dei centri di ritiro Aima (luoghi dove gli agrumi venivano conferiti e pagati dalla Cee a un prezzo accettabile, per non parlare, poi, delle mega-truffe ordite e realizzate dalla stessa politica siciliana in combutta con un’imprenditria collusa e, naturalmente, con la mafia: cosa, questa, denunciata dal solo Pio La Torre, allora segretario regionale del Pci che, non a caso, verrà trucidato).
Tornando al ragionamento generale, la politica italiana – compresa quella siciliana – ha accettato di sacrificare le proprie produzioni agricole in cambio dei centri Aima (per gli agrumi) e delle varie integrazioni (per l’olio di oliva e per il grano, soprattutto). Addirittura, la politica siciliana di quegli anni ha accettato, per esempio, una sorta di ‘liberalizzazione’ strisciante del nocciolo (leggere l’arrivo di nocciole, peraltro di pessima qualità, funzionale alla grande industria italiana del Nord, ma deleterio per il Sud e, in particolare, per la Sicilia) che ha determinato l’abbandono della coltura del nocciolo sui Nebrodi e sui Peloritani: cosa, questa, che ha acceletaro ed accentuato il dissesto idrogeologico di queste aree che oggi, non a caso, franano e si allagano con l’arrivo delle prime piogge di una certa consistenza.
Oggi assistiamo alle ultime battute di una politica agraria miope per la Sicilia, ma assai ‘produttiva’ per gli attuali ‘padroni’ dell’Unione Europea. La maggior parte degli ‘aiuti’ comunitari è stata sbaraccata. Gli agricoltori siciliani – con riferimento per lo più ai piccoli produttori – sono allo stremo. Inseguiti dalle banche del Centro Nord Italia che, adesso, stanno provando pure a prendersi i loro terreni.
A conti fatti, la cessione di sovranità ‘nazionale’, da parte della Sicilia, all’Unione Europea si è rivelata una truffa ai danni degli agricoltori dell’Isola. Di questo dovrebbe cominciare ad avere contezza il Movimento dei Forconi. II governo nazionale e l’ ‘ascarismo’ delle classi dirigenti – o presunte tali – della Sicilia hanno giocato una parte importante nella crisi odierna dell’agricoltura siciliana (unitamente alle insufficienze di Coldiretti, Cia e Confagricoltura). Ma la parte preponderante spetta di ‘diritto’ prima alla Cee e adesso all’Unione Europea.
Lo stesso discorso, seppur con sfumature diverse, riguarda la pesca. Che è di certo entrata in crisi a causa di un eccessivo sfruttamento delle risorse ittiche del Mediterraneo. Ma che è stata anche massacrata da regolamenti comunitari pensati per i mari del Nord e applicati in modo maldestro – e spesso in modo truffaldino – nell’area del Mediterraneo.
Valga per tutti il caso di alcuni attrezzi di pesca che l’Unione Europea ha proibito. Un provvedimento apparentemente ecologico, ma in realtà – almeno in alcuni casi – non proprio corretto. Nel Mediterraneo, infatti, non si affacciano solo Paesi dell’Unione Europea. Ora, proibire certe tecniche di pesca, quando in altri Paesi del Mediterraneo non comunitari tali tecniche continuano ad essere utilizzate è solo una penalizzazione per le marinerie del Sud Europa. Anche per il mondo della pesca della Sicilia, insomma, la cessione di sovranità ‘nazionale’ prima alla Cee e poi all’Unione ha provocato gravi danni.
Per questo c’è da inorridire nel sentire il nostro Presidente del Consiglio – e torniamo al video che ‘circola’ su facebook – che ci spiega che le crisi servono per cedere ulteriori quote di sovranità popolare e nazionale all’Unione Europea. Se la Sicilia vuole salvare la nostra agricoltura e la nostra pesca deve riprendersi la sovranità che ha ceduto all’Unione Europea, altro che cedere altre quote! Ma questo non potrà certo farlo la debole e screditata – se non ‘ascara’ – politica siciliana. Ci vuole una nuova classe politica. Anzi, una nuova classe dirigente. Con le ‘Carte in regola’, avrebbe detto Piersanti Mattarella.
La protesta di questi giorni potrà aiutare la Sicilia a crescere? Riusciranno gli agricoltori siciliani a respingere l’assalto delle banche? Si potranno creare le condizioni per salvare agricoltura e pesca? Siamo ormai condannati a importante prodotti agricoli e ittici da Paesi del mondo dove l’agricoltura è, spesso, avvelenata da pesticidi che l’Italia ha bandito da oltre trent’anni perché nocivi per la salute umana? Sono domande complicate. In una regione, anzi in un Paese dove la politica non sembra esserci più.

 

Giulio Ambrosetti

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