«Quello mio e di mia figlia Alua fu un rapimento». Alma Shalabayeva, la moglie del dissidente kazako Muktar Ablyazov espulsa dall’Italia, messa su un aereo e rispedita in Kazakistan, conferma in tribunale a Perugia la sua versione di quanto accadde quel 31 maggio del 2013. Lei e sua figlia non furono espulse dall’Italia ma rapite nella loro villa di Casalpalocco, alle porte di Roma, messe su un aereo e rispedite in Kazakistan contro la loro volontà, per colpire il marito, dissidente politico.
La donna è stata sentita dalla gip Carla Giangamboni con la formula dell’incidente probatorio nell’udienza sulla richiesta di rinvio a giudizio avanzata dalla procura nei confronti di undici persone, accusate a vario titolo di sequestro di persona e falso: l’allora capo della squadra mobile di Roma e attuale questore di Palermo Renato Cortese, l’allora capo dell’ufficio immigrazione di Roma e attuale questore di Rimini Maurizio Improta, il giudice di pace Stefania Lavore, cinque poliziotti (Luca Armeni e Francesco Stampacchia della Mobile e Vincenzo Tramma, Laura Scipioni e Stefano Leoni dell’Immigrazione) e tre funzionari dell’ambasciata kazaka di Roma (l’allora ambasciatore Andrian Yelemessov, il primo segretario Nurlan Khassen e l’addetto consolare Yerzhan Yessirkepov).
La vicenda risale a cinque anni fa. La donna viene fermata da alcuni agenti della questura di Roma insieme alla figlia di sei anni. In quell’occasione le contestano di possedere un passaporto falso. Solo due giorni dopo quel fermo, la questura firma la sua espulsione e l’accusa di essere entrata illegalmente in Italia. Il giorno dopo le due donne vengono imbarcate su un aereo diretto in Kazakistan. Si innesca subito la mobilitazione del marito e pochi giorni dopo il Consiglio italiano per i rifugiati invia una e-mail all’allora ministra degli Esteri Emma Bonino, che subito denuncia alcuni punti oscuri nella vicenda. Solo a dicembre 2013 Alma Shalabayeva può lasciare il Kazakhstan. Rientra in Italia poco dopo insieme alla figlia Alma e poco dopo ottiene lo status di rifugiato.
«La libertà mia e di mia figlia Alua – dice la donna – è stata violata nella piena consapevolezza che non si trattava affatto di un’espulsione ma, sotto le mentite spoglie dell’espulsione, di una deliberata consegna al regime del Kazakhstan della moglie e della figlia di un oppositore politico». Parole pronunciate già nel 2013 e ribadite oggi davanti alla giudice. «La signora Shalabayeva – ha detto il suo avvocato Astolfo D’Amato – ha confermato la sua versione, punto per punto». Secondo i legali degli imputati, però, la donna sarebbe incappata in qualche contraddizione. «Ha sostanzialmente riconfermato la linea che aveva sempre prospettato – ha sottolineato Franco Coppi, legale di Cortese – ma ci sono state piccole variazioni che approfondiremo nella prossima udienza».
Nella richiesta di rinvio a giudizio i pm perugini parlano di una lunga sequela di omissioni e falsi da parte degli indagati, che avrebbero esposto la Shalabayeva al «concreto rischio di subire violazioni dei diritti umani». «Mediante le rispettive, consapevoli condotte commissive ed omissive», dicono i pm, poliziotti e funzionari kazaki, con il concorso del giudice di pace, «avrebbero privato della libertà personale» la donna, consentendo il suo trattenimento e conducendo la figlia Alua all’aeroporto di Ciampino «con l’inganno», sostenendo che l’avrebbero portata in questura per farle incontrare la madre.
Anche la Cassazione, nel luglio del 2014, aveva bollato l’operazione come viziata «da manifesta illegittimità originaria»: «La contrazione dei tempi del rimpatrio e lo stato di detenzione e sostanziale isolamento della donna, dall’irruzione alla partenza hanno determinato un irreparabile vulnus al diritto di richiedere asilo e di esercitare adeguatamente il diritto di difesa»
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