«Rispetto a ieri la situazione non è cambiata». Matteo Iannitti, di Catania bene comune, è tra i volontari che la scorsa notte hanno monitorato il centro della città dopo lo sgombero per ragioni igieniche di piazza della Repubblica. «Alcuni sono rimasti a dormire lì, circa una ventina, gli altri sono andati via». Che la responsabilità dell’accoglienza non sia solo comunale, è chiaro per tutti gli attivisti che – riuniti nel progetto Presidio leggero ideato nel corso dell’amministrazione Stancanelli e ancora attivo anche se non in maniera ufficiale – presidiano il territorio. «Però c’è la certezza che ci sono persone senza tetto. Chiediamo che quantomeno vengano approntate soluzioni alternative come dei ricoveri comunali, invece di affidarsi solo al buon lavoro che fa la Caritas», afferma Iannitti.
Una prima richiesta è l’installazione di bagni chimici nei punti nei quali «si aggregano queste persone senza casa, straniere, che si trovano a vagare per la città». E, come avviene altrove nel nord Italia, che si facciano dei punti medici per prestare prima assistenza. «Sappiamo che l’assessore Angelo Villari (titolare dei Servizi sociali, ndr) sta contattando le associazioni per approntare un primo ricovero. Sappiamo che ci sono problemi burocratici, ma l’emergenza è oggi». Il sistema di accoglienza a Catania, sostengono gli attivisti, non funziona. «Ne è la prova quanto sta succedendo in piazza della Repubblica, ma anche all’interno di Villa Bellini», evidenzia Iannitti riferendosi anche al clochard morto nella notte di lunedì.
Un’emergenza che si somma a quella migranti, che ieri è stata al centro di un’assemblea. Uno dei punti centrali è quello relativo al Centro per richiedenti asilo di Mineo, uno dei casi al vaglio degli inquirenti della procura romana. «L’esperienza del Cara è una cosa partita male e finita peggio. Le inchieste di Mafia capitale continuano a darcene conferma». Alfonso Di Stefano, della Rete antirazzista etnea, da tempo è tra i promotori della campagna di chiusura del Centro. «Il Cara doveva essere un laboratorio europeo, il villaggio della solidarietà, ma in realtà ha recato sofferenza a oltre 18mila richiedenti asilo».
L’assemblea è stata dedicata alla memoria di Mulue Ghirmay, giovane di origini eritree impiccatosi dentro al Cara nel dicembre 2013. «Stroncato dalla snervante attesa di una commissione», che anziché in un mese si esprime dopo circa 500 giorni. Eppure una soluzione alternativa, garantiscono i componenti della Rete, esiste. «Noi proponiamo il modello degli Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) nei piccoli centri», afferma Di Stefano. La struttura di Mineo, sottolinea, non è idonea a sopportare il grande numero di ospiti che nel tempo vi sono stati assegnati. Il Cara, infatti, nel corso degli ultimi sbarchi che si sono susseguiti in Sicilia ha fatto anche da centro di prima accoglienza. «Arrivano migranti appena sbarcati – spiega l’attivista – E anche se vengono portati poco prima di mezzanotte, viene assegnato loro il badge». Una sovvenzione da sette euro e cinquanta per tre giorni. «Eppure molti già dal giorno dopo si allontanano – precisa – E così, in pieno scandalo, si continua ancora a lucrare sulla pelle dei migranti e sui contribuenti».
Altro nodo cruciale è quello dell’accoglienza dei minori. «Fino a qualche mese fa avevamo un sistema gestito dalle comunità alloggio», racconta Matteo Iannitti. «I ragazzi venivano portati in strutture che prevedevano anche un inserimento nel mondo della scuola, con corsi di alfabetizzazione e di formazione che hanno dato degli ottimi risultati». Ma dall’estate dell’anno scorso sono stati ridefiniti i termini del servizio, con la creazione di centri di prima accoglienza, «dove non hanno alcun tipo di interazione». A far riflettere Iannitti è il dato economico: «Prima si spendevano 70 euro al giorno per minore. Adesso, con la prima accoglienza, il costo è di 35 euro». Un dimezzamento «che dà l’idea di come si sta gestendo la questione». Anche per i minorenni la fuga dalle strutture è l’unica soluzione. «Sono in pasto a tutto quello che possiamo immaginare», commenta amaramente.
«Si è discusso anche di quali azioni intraprendere contro l’apertura della sede dell’agenzia Frontex», anticipa il coordinatore di Catania bene comune. «Triton è un’operazione militare volta al controllo, all’opposizione militare agli sbarchi. Per noi l’apertura della sede a Catania è segno di ulteriore militarizzazione sia della città che del nostro mare».
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