Sergio Mattarella, dalla Dc di Palermo al Quirinale Trent’anni di politica e una sola arrabbiatura

Alla fine degli anni ’80 del secolo passato dicevano di lui: «La sua assenza nel dibattito politico siciliano è solo apparente. In realtà, è sempre presente». Allora Sergio Mattarella – da oggi nuovo Presidente della Repubblica – era commissario del Dc di Palermo e partecipava alle riunioni più importanti con i capi della Democrazia cristiana dell’Isola di quegli anni dove si ritrovavano Nino Gullotti, Calogero Mannino, Rino Nicolosi, Salvo Lima, Nino Drago, Gino Foti, Giuseppe Sinesio, Salvatore Sciangula, Giuseppe Merlino, Lillo Pumilia, Salvatore D’Alia e via continuando.

Già allora era un big. Anche se più spinto dagli eventi che dalla sua volontà. Perché, in realtà, in casa Mattarella, oltre al padre Bernardo, tra i fondatori della Dc, il figlio designato alla politica era Piersanti. Che, infatti, percorrerà tutte le tappe tipiche di chi, allora, si candidava a diventare esponente della classe dirigente: solidi studi in Giurisprudenza (Piersanti Mattarella, se non avesse fatto politica, sarebbe diventato docente universitario di Diritto privato), consigliere comunale a Palermo nei primi anni ’60, deputato a Sala d’Ercole nel 1967, più volte assessore regionale e poi, nel 1978, presidente della Regione siciliana.

La brillante esperienza politica di Piersanti Mattarella s’interromperà il 6 gennaio del 1980. Ucciso sotto casa in quella domenica di Epifania. Un delitto ancora oggi non chiarito del tutto. Uno dei tanti misteri di una Sicilia non sempre decifrabile. Sergio Mattarella era l’erede naturale del fratello. Anche se, in realtà, non sarà una scelta semplice. Si racconta che a convincere il fratello di Piersanti ad entrare in politica sia stato, nel 1983, l’allora segretario nazionale della Dc, Ciriaco De Mita. In quell’anno Sergio Mattarella va per la prima volta in lista nella Dc. Allora per la Camera dei deputati c’erano due circoscrizioni: Sicilia occidentale e Sicilia orientale. Mattarella va nella prima. Così diventa il leader degli ex morotei siciliani, una corrente della Dc decimata nel 1978 dalla tragica vicenda di Aldo Moro e poi dall’uccisione del fratello Piersanti (legatissimo a Moro).

Un anno dopo De Mita lo nomina commissario della Dc di Palermo. Ruolo scomodissimo. L’anno prima, a febbraio, ad Agrigento, si è svolto un tumultuoso e drammatico congresso della Dc siciliana. La sinistra del partito ha deciso di estromettere Vito Ciancimino. È un colpo tremendo per l’ex sindaco di Palermo che con il suo pacchetto di voti (il 3,8 per cento circa) si ritrova con un pugno di mosche tra le mani. Di fatto, messo alla porta dalla Dc dopo una militanza di quasi quarant’anni.

La mossa del segretario nazionale della Dc è meditata. Due anni prima, nel 1981, Ciancimino, da responsabile degli enti locali della Dc di Palermo, si era reso protagonista di una dichiarazione a dir poco inquietante: «Chi porta morte avrà morte», aveva detto il chiacchierato ex sindaco del capoluogo dell’Isola. Qualche suo improbabile difensore cerca di far sapere che le parole erano rivolte ai terroristi. Solo che in Sicilia di terroristi non ce n’erano molti. Era invece in corso una lunga stagione di sangue che aveva già visto cadere uomini delle istituzioni: oltre a Piersanti Mattarella, erano stati uccisi Cesare Terranova, Boris Giuliano, il procuratore della Repubblica di Palermo, Gaetano Costa. Insomma, le parole di Ciancimino non erano tranquillizzanti (negli anni successivi non mancheranno altri delitti eccellenti).

Ciancimino, come già ricordato, resterà fuori dalla Dc. Ma rimarrà protagonista nella gestione del potere. A Palermo nessuno metterà in discussione il suo ruolo di padrone degli appalti pubblici. E nel resto della Sicilia continuerà ad esercitare un’influenza importante nella gestione della metanizzazione. Andrà male alla Dc, che alle elezioni politiche del 1983 perderà un sacco di voti.

A Palermo, in una città che rimane difficile, Sergio Mattarella deve barcamenarsi in un ruolo complicato: gestire i delicati equilibri del capoluogo dell’Isola. Lo farà sempre nel suo stile essenziale: poche parole e fatti concreti. Nel 1985, con il Psi, lancia la candidatura a sindaco di Palermo di un giovane Leoluca Orlando. Due anni dopo il pentapartito è stretto. A Roma è già iniziata la lunga guerra tra De Mita e Bettino Craxi. E la prima risposta arriva proprio dal Comune di Palermo. Dove i socialisti finiscono fuori dall’amministrazione della città. Inizia la Primavera di Palermo con Leoluca Orlando che dà vita a una battaglia antimafia a tratti sincera e a tratti ambigua. Dietro di lui c’è Sergio Mattarella. Che comunque non seguirà il sindaco di Palermo nelle sue scorribande mediatiche e politiche. Non lo seguirà, soprattutto, nell’azione di distruzione della Dc.

Il nome di Mattarella non sarà mai legato a quello del gesuita Ennio Pintaduda o della Rete di Orlando. La sua vita politica nella Prima Repubblica resterà sempre legata alla Dc. Per la precisione, alla sinistra Dc. Sarà ministro dei governi De Mita e Goria. Ed è tra i ministri che rassegnano le dimissioni in polemica con la legge Mammì, legge che segna la vittoria di Silvio Berlusconi e le sue tv. E diventerà commissario della Dc siciliana poco prima che lo Scudocrociato finisca inghiottito nelle sabbie di Tangentopoli. E’ lui che, nel 1992, sponsorizza il governo regionale guidato da Giuseppe Campione. Un esecutivo innovativo, con dentro il Pds che ha preso il posto del Pci. Sarà un’esperienza breve ma intensa. Per la prima volta si romperanno incrostazioni di potere che alla Regione resistevano dalla fine degli anni ’50. Ma vuoi perché la Dc stava scomparendo, vuoi perché gli equilibri che il governo Campione stava sovvertendo erano tanti, l’esperienza si chiude. Non prima, però, di aver varato una legge elettorale innovativa: l’elezione diretta dei sindaci, legge con la quale la Regione siciliana anticipa di qualche anno il resto d’Italia.

Docente di Diritto parlamentare, Sergio Mattarella non è solo tra gli ispiratori della legge siciliana sui nuovi sindaci: è anche il protagonista del Mattarellum, la legge elettorale che resisterà fino all’avvento del Porcellum. Il Mattarellum, che si sperimenterà per la prima volta nel 1994, prevede l’assegnazione del 75 per cento dei seggi con l’uninominale e il 25 per cento con il proporzionale. Insomma un sistema elettorale misto, frutto della mediazione di Mattarella.

Tangentopoli lascerà anche un segno nella sua vita politica: un’accusa per una tangente di 3 milioni di vecchie lire in buoni di benzina. In una Sicilia dove le tangenti viaggiavano su centinaia di milioni di euro è un’accusa un po’ strana. E infatti cade con la formula del «perché il fatto non sussiste».

La Dc, intanto, non c’è più. Nello Scudocrociato va in scena la diaspora. C’è chi va con Forza Italia, chi tenta di far rinascere il Partito popolare di don Sturzo (che poi è il modello di Sergio Mattarella), chi crea il Ccd, chi il Cdu. Alla fine quella che era stata la sinistra Dc dà vita alla Margherita. E Mattarella sarà lì. Tornando al governo del Paese come ministro e vice presidente del Consiglio. Rimane parlamentare fino al 2008.

Tre anni dopo, nel 2011, viene designato alla Corte Costituzionale. E da siciliano si ricorda di quando, alla fine degli anni ’50 del secolo passato, la Corte Costituzionale appena nata aveva assorbito tra polemiche e veleni, l’Alta Corte della la Sicilia, lasciando al proprio posto l’ufficio del Commissario dello Stato. Sua l’ordinanza che mette in discussione proprio il commissario dello Stato, le cui funzioni verranno drasticamente ridotte dalla Consulta. Su questo passaggio non sono mancate le discussioni e le polemiche. Però nessuno può mettere in discussione il fatto che è con Sergio Mattarella nella Corte Costituzionale che si affronta un tema che era rimasto bloccato dalla fine degli anni ’50.

Schivo, di poche parole, Sergio Mattarella usa sempre toni pacati. Solo una volta sbotta. Succede quando tirano in ballo le vicende del padre Bernardo, parlamentare di lungo corso nella Dc, e ministro. Un personaggio sul quale pesa una storia controversa. Una vicenda legata agli anni subito successivi al secondo dopoguerra, alla banda di Salvatore Giuliano e alla strage di Portella delle Ginestre. Storie sbiadite dagli anni. E mai chiarite. Anche perché gli archivi segreti italiani, nel passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, sono rimasti tali: cioè sbarrati. In quest’occasione tira fuori gli artigli per difendere la memoria del padre. Accusato, anche, di aver traghettato, negli anni ’50, assieme ad altri suoi compagni di partito, la mafia nella Dc. Accuse mai provate. Lo stesso Danilo Dolci, il sociologo trentino trasferitosi in Sicilia negli anni ’50, perderà una causa contro Bernardo Mattarella.

Alzerà di nuovo i toni quando si prospetterà di far confluire Forza Italia nel Ppe. Pronunciando due parole che finiranno nei titoli di tanti giornali: «Incubo irrazionale». Del resto, cosa avrebbe dovuto dire di diverso un vecchio popolare sturziano come lui? E forse è per questo che Berlusconi non ha digerito la sua candidatura.

Giulio Ambrosetti

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