Sea Watch, parla chi è stato a bordo coi 32 migranti «Torturati per farne uno strumento di propaganda»

Trentadue persone rimaste in balia del mare per quasi venti giorni, al freddo del pontile della nave Sea Watch 3, che li ha salvati da naufragio certo. Trentadue persone che dopo aver visto in faccia la morte, prima lungo il deserto fino alla Libia, poi imprigionati nelle fatiscenti mezre nelle mani dei trafficanti e infine in mare, senza sapere come, quando e soprattutto se sarebbero mai giunte da qualche parte, si sono viste chiudere in faccia ogni porta. Anzi, ogni porto. Quasi venti giorni di dibattiti e scontri per riuscire a farli finalmente sbarcare, per cominciare, in un modo o nell’altro, una nuova vita lontano dall’orrore, forse. Chi mai chiederà loro scusa per quei giorni bloccati nel mare? È una delle domande che si è posto Fausto Melluso del circolo Arci Porco Rosso di Palermo, salito per un giorno a bordo della ong in rappresentanza di Arci Sicilia. E che gli occhi di quelle 32 persone li ha visto da vicino. «Sono salito insieme ad Alessandra Sciurba – referente di Ciai a Palermo per il progetto Ragazzi Harraga – con una missione specifica, nell’ambito della piattaforma United4Med: portare viveri e non solo, beni che servivano. Oltre ad accompagnare una delegazione di parlamentari tedeschi e giornalisti, molti anche italiani, per parlare, valutare, vedere lo stato dell’arte pochi giorni prima che la situazione finalmente si sbloccasse».

A bordo di un’altra imbarcazione arrivano fino a Malta e lì, avvicinandosi alla Sea Watch ferma in mare, il trasbordo sulla ong. «La situazione a bordo era immaginabile, anche se si dovrebbe dire il contrario – racconta Melluso -. I ragazzi della Sea Watch sono tutti giovanissimi e attentissimi a tutto: ordine, pulizia, decoro, elementi molto importanti e anche complicati da mantenere, specie in quel contesto, quelle persone stavano lì a bordo già da settimane». La situazione però era «estremamente pesante», e a dirlo è qualcuno che in un certo modo è abituato a gestire contesti anche complessi in fatto di migrazione. «Questo lo era di più. La situazione fisica era sicuramente grave, c’erano persone che mostravano segni evidenti del loro essere sfinite. Il bollettino medico dice che c’era bisogno anche di cure», spiega. Ma a impressionarlo di più non sono state le condizioni fisiche dei migranti, seppur precarie, ma quelle psicologiche. «Era una situazione davvero molto complessa», sottolinea.

                

«Abbiamo parlato con tutte le persone a bordo: molte avevano provato più volte a fuggire dalla Libia ed erano state riportate indietro dalla guardia costiera libica e riportate in una condizione di detenzione, da cui per emanciparsi avevano dovuto pagare altri soldi ai trafficanti; quindi era un po’ come se loro da mesi, magari da anni, provassero a scappare dalla Libia e più volte fossero stati delusi, anche perché sia chiaro che i libici non salvano, loro sequestrano e deportano. Quindi pensate – prosegue – che alcuni di loro riescano per una volta a vedere un altro schema di fronte a loro: finalmente vengono salvati da un ente terzo e quindi la grande felicità. Quando, dopo un giorno, la situazione non si sblocca, nemmeno dopo due giorni e ti avvicini alla terra tanto da poterla vedere ma non da poterla raggiungere, ovviamente la situazione psicologicamente diventa molto complessa, e anche a bordo, perché evidentemente quella che si celebrava là sopra era sicuramente una tortura in cui però i torturatori non si mostrano. E non certo i volontari della Sea Watch, loro altro che carcerieri, persone che provavano in tutti i modi a prendersi cura da un punto di vista fisico delle persone, ma anche a renderli consapevoli di quello che stava accadendo».

Persone che, dal suo punto di vista, non hanno certo scelto di condurre alcun tipo di battaglia, specie politica. «Erano 32 persone, non certo un simbolo. Però si sono scontrati con il fatto di essere stati simboleggiati dal dibattito e hanno pagato colpe non loro – ribadisce Melluso. Questa sofferenza durata 19 giorni è stata completamente inutile». Eppure, dal punto di vista dell’equilibrio, specie psicologico, chi ha dato l’impressione di reggere meglio la pressione causata dalle circostanze sono state, a parer suo, le donne con figli. «Questo probabilmente anche perché avevano persone a cui badare e quindi non potevano perdere lucidità. Quando, da là sopra, abbiamo sentito questa boutade di far scendere donne e bambini, siamo rimasti interdetti. Cosa vuol dire: affermare che le donne in quel contesto sono più vulnerabili degli uomini?». Un’argomentazione che però secondo lui è stata fondamentale per incartare successivamente la trattativa per farli scendere.

A bordo da un lato non si volevano creare aspettative per un’attesa che non si sapeva quanto sarebbe stata lunga, ma dall’altra «aspettative e speranze sono quelle cose che ci tengono in vita. Noi ai loro occhi in quel momento, e l’Europa in generale, cosa eravamo di diverso da un paese come la Libia in cui i loro diritti venivano calpestati? – non può non chiedersi Melluso -. L’Europa di cosa aveva paura? Che quelle persone, che fino a che erano in mezzo al mare non erano nessuno, arrivati sulla terra diventassero soggetti di diritto? Sono sicuro che queste persone ci faranno il regalo di dare il loro contributo alla nostra comunità, ma a loro chi chiederà mai scusa per quello che gli è stato fatto?». Diciannove giorni di tortura, ma chi sono alla fine i torturatori? «Di questo bisognerebbe occuparsene – torna a dire -, perché certo qualcuno ce li ha tenuti là sopra, nella consapevolezza precisa che, non potendo lasciare affondare la nave, qualcuno prima o poi avrebbe sbloccato la situazione».

Perché a suo dire quella barca in quel momento è diventata un simbolo. «Figuriamoci in quei 19 giorni quanta gente è entrata in Europa per mare e per terra con altre vie, molti più di quelli là. Eppure quelli là sono diventati un simbolo, ma non lo erano, erano delle persone che non avevano deciso di dare la propria sofferenza per motivi propagandistici», dice con amarezza, ripensando alla narrazione attuale che per lui andrebbe combattuta. «Il problema non è solo Salvini come causa di qualcosa, ma è anche stato causato da qualcosa ed è chiaro che noi dobbiamo riprendere le fila di una discussione con tutte le categorie sociali. È frutto di una progressiva degradazione del dibattito sulle migrazioni, per cui i migranti vengono visti come colpevoli di tutto, mentre qualsiasi cosa che si vende come fallimento dell’Europa sui migranti è in realtà un fallimento dell’Europa nella sua capacità di costruirsi come un’unità politica». 

Eppure, dietro la tanta amarezza per quegli sguardi e quelle storie incontrati sulla Sea Watch, per Fausto ci sono ancora spiragli di positività, di fiducia. «Parlare può servire moltissimo – dice con convinzione -, anche una battaglia come quella che viene svolta a Palermo che abbia come riferimento correttamente i cardini della nostra civiltà giuridica, dalla Costituzione alla convenzione di Ginevra, è una battaglia completamente inutile se di queste cose le persone non ne riscoprono il valore. La battaglia culturale è ancora più importante di quella giudiziaria. Forse riuscirai ad avere una sentenza favorevole rispetto a una pratica, ma se perdi la battaglia fra le persone, che non si rendono conto che questo agitare il nemico del migrante è una colossale presa in giro, perderai sempre». Ma non c’è da essere né ottimisti né pessimisti. «Nel dibattito sulle misure adottate oggi o vinceremo perché riusciremo a testimoniare il fatto che quelli che vengono venduti come problemi legati all’immigrazione sono problemi legati alla nostra maniera di gestire il fenomeno migratorio; oppure perderemo, perché chi ci governa troverà qualche alibi esterno per riuscire a giustificare il peggioramento delle condizioni obiettive. Penso – conclude – che sia il caso di attrezzarsi per combattere, senza avere paura. Non bisogna dire che tutto è perduto, ma non credo nemmeno che sarà facile».

Silvia Buffa

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