Se la scienza è applicata alla lotta al crimine Come cambiano i metodi investigativi

A Manchester pioveva da matti quando alle 15.30, puntualmente, si concludeva l’ultima giornata della Conferenza Internazionale sull’Intelligence e sul Crimine. Gli applausi al discorso finale, per quanto forti, si confondevano con lo scrosciare sul tetto. A nessuno pareva importare: attorno vedevi solo le facce soddisfatte di chi aveva imparato qualcosa, di chi tra le mani contemplava un interessante biglietto da visita. E di chi, semplicemente, andava via confabulando sui vari benefici derivanti dall’uso della scienza nella lotta al crimine.

L’evento, meglio conosciuto come Iciac (acronimo in inglese), è il raduno più importante in Europa per chi applica un metodo scientifico interdisciplinare per il design di strategie anti-crimine. Contrariamente alle (mie) aspettative, gli accademici sono solo una piccola parte dei partecipanti. Analisti d’intelligence, ispettori di polizia, addetti alla sicurezza e rappresentanti di aziende tech compongono la maggior parte del pubblico e dei relatori.

Prima di andare nei dettagli della conferenza, è bene capire cosa vuol dire applicare il metodo scientifico al crimine. La scienza è principalmente un ciclo continuo di osservazione, ipotesi ed esperimenti. Osservare la realtà aiuta a generare una serie di ipotesi su come questa funzioni. Le ipotesi, tuttavia, non sono date per vere. Al contrario, vengono continuamente testate con degli esperimenti, e in seguito modificate, migliorate o gettate nel cestino.

Un simile processo può essere applicato a un atto criminoso. Analizzando i dati disponibili attraverso strumenti provienienti da altre discipline, le sue regolarità posso essere scovate in modo tale da mobilitare le risorse necessarie per fermarlo. Agire in tal modo può sembrare ovvio e anche facile; in realtà è una pratica che sta prendendo piede solo negli ultimi anni. E non molto in Italia.

Facciamo un esempio. Christine Leist lavora per la polizia metropolitana di Londra e grazie al suo operato sono riusciti a catturare un rapinatore seriale, che da anni spargeva sangue nel sud-est della città.  Le forze dell’ordine erano davanti a un impasse: il criminale sembrava imprevedibile e non c’erano le risorse necessarie per fermarlo. Christine ha preso in mano il caso. Attraverso una tecnica nata in urbanistica e nota come analisi spaziale geografica, ha analizzato i luoghi dove i delitti sono avvenuti, e stimato la locazione della base del criminale con il 70 per cento di probabilità. Da niente i poliziotti avevano già un’ipotesi su dove si trovasse il criminale. Fu arrestato poco dopo.

Ci sono altri, come il capo dell’unità crittografica dell’Fbi, che hanno introdotto nel loro lavoro anche l’intelligenza artificiale. La sua squadra si occupa di decifrare i codici e i graffiti che spesso usano gang criminali e narcotrafficanti per comunicare. Un compito non facile: i simboli sono estremamente soggettivi, cambiano significato a seconda del gruppo o del luogo. L’unico modo per iniziare è vedere se esistano simboli simili già identificati, ma neanche un esperto può fornirti un’informazione del genere. Per questo l’agenzia ha costruito un database di immagini e codici, e un algoritmo che impara a riconoscere quelli simili.

L’avanguardia non si ferma qui. L’Ibm era anche lì, presente, a sponsorizzare i suoi nuovi software per l’analisi d’intelligence. Accanto figurava una compagnia conosciuta meno ma che sta racimolando successo in Regno Unito, grazie alla loro app che permette ai poliziotti di ricevere tips, informazioni anonime e in tempo reale da chiunque altro usi lo stesso software. Ancora più avanti era affisso un poster di un ricercatore della University College London, che riassumeva il suo lavoro su come terroristi e gruppi criminali usino i social network per espandersi e raccogliere fondi.

C’era molto altro ancora, e alcuni prossimi post ne parleranno in modo approfondito. Ciò che mancava, tuttavia, era una certa compassione per il cittadino comune. Un poliziotto avvertiva il pubblico della “minaccia” delle app che ti rendono anonimo su internet, chiedendosi perché mai un cittadino onesto vorrebbe usarle. Scordava che la privacy per molti è un bene in sé. Meglio essere anonimi che perseguitati dallo spam del marketing. Chi introduceva una nuova tecnica per scavare nelle identità dei sospetti utilizzando internet non menzionava le conseguenze etiche di una pratica del genere. Forse non lo ritengono parte del proprio lavoro. E credo sia pericoloso.

 

[Foto di Loughborough University]

Stefano Gurciullo

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