Cronaca

Sciacca, due infermieri aggrediti in un mese: «Il sistema non funziona e insultano noi ogni giorno»

«Da vent’anni vengo in ospedale per fare il mio lavoro. Non avrei mai pensato di dovermi chiedere se sarei tornata sana e salva a casa da mio marito e mia figlia. E invece ora me lo chiedo ogni giorno». Graziella, 40 anni, infermiera di pronto soccorso, lavora all’ospedale Giovanni Paolo II di Sciacca, nell’Agrigentino. Dopo la sua aggressione, avvenuta in pieno giorno a metà dicembre, l’azienda si è dotata di un vigilante. Ma non è bastato a evitare che, neanche un mese dopo, poche notti fa, un altro suo collega trentenne si beccasse un pugno in faccia. Sono solo le ultime aggressioni al personale sanitario siciliano, entrambe denunciate alle forze dell’ordine. Ma anche solo una piccola parte – l’unica che emerge – della quantità di minacce quotidiane subite. «Quando ti dicono “ti aspetto fuori” non sai mai se è un momento di rabbia e magari finisce lì, oppure se li troverai davvero al parcheggio, quando prendi la macchina per tornare a casa. Questi casi neanche li contiamo più», commenta Salvatore Terrana, segretario NurSind Agrigento.

Mercoledì notte il collega di Graziella stava svolgendo il suo turno, quando ha sentito che appena fuori dal pronto soccorso gli animi si stavano scaldando. Un uomo senza fissa dimora stava urlando e provando a forzare la porta a calci. Intervenuto per calmarlo, l’infermiere si è visto invece arrivare un pugno in faccia. Tra i presenti, anche la guardia giurata assunta dall’azienda dopo un’altra aggressione, quella ai danni di Graziella, intorno alle 14 del 17 dicembre. «Stavo per cominciare il mio turno al triage quando, alla finestrella che ci divide dalla sala d’attesa, bussa un signore sulla quarantina, molto agitato, chiedendo che il figlio di circa sei anni venisse subito visitato», racconta a MeridioNews. Graziella spiega all’uomo l’ormai consolidata trafila post-Covid: bisogna uscire, fare il tampone e, subito dopo, si viene registrati e smistati nell’ambulatorio corretto. «Si vedeva che il signore non era affatto contento – continua – Ma il problema è nato dopo, quando è tornato, infuriato, dicendo di non aver trovato nessuno».

È a quel punto che la storia si arricchisce di un nuovo personaggio: «Una terza persona, in sala d’attesa, comincia a incitare il papà del bambino ad alzarci le mani se necessario». Invito subito recepito dall’uomo che afferra il braccio di Graziella, la strattona e prova a tirarla fuori dalla finestrella. «Io sono riuscita a liberarmi, ho chiuso subito il vetro e ho chiamato la polizia – spiega – Non mi sono fatta troppo male perché per fortuna, tra me e lui, c’erano un muro e una finestra. Ma cosa sarebbe successo altrimenti?». Di certo c’è solo la sorte del bimbo: dimesso poche ore e un clistere dopo, che ha rimesso a posto il suo dolore addominale.

«Faccio da sempre vita di pronto soccorso, prima ero a Palermo – racconta Graziella – e non avevo mai visto nulla di simile. Ormai andiamo a lavorare sapendo che verremo insultati ogni giorno, sentendoci ripetere che non facciamo niente e ci freghiamo lo stipendio». «Il motivo è semplice: mancano i medici – le fa eco il segretario territoriale NurSind Terrana – Quando c’è un solo dottore in un pronto soccorso strapieno, è ovvio che si creano lunghe attese e la gente si agita». Specie dopo il Covid, per la trafila più lunga e alcuni ospedali, come quello di Ribera, dedicati solo al virus, aumentando la pressione negli altri nosocomi della zona. «Che sia l’assessore regionale o i deputati non mi importa, ma qualcuno deve fare qualcosa – continua il sindacalista – I vigilantes evidentemente non bastano: perché non ripristinare il posto di polizia? Insieme alla medicina territoriale, alle strategie per diminuire gli accessi al pronto soccorso e a una seria campagna culturale».

Senza contare le storture burocratiche di un sistema troppo lento ad adeguarsi a un fenomeno ormai giornaliero come quello delle violenze – fisiche e verbali – sui sanitari. «Se, per assurdo, un infermiere picchiasse un utente, avrebbe il patrocinio dell’azienda – spiega Terrana – Se invece è lo stesso infermiere a venire picchiato toccherà a lui pagarsi l’avvocato per denunciare, con il suo stipendio da 1500 euro al mese». E magari, se va bene, aspettare il primo segno di giustizia: come a Palermo, dove in questi giorni sono stati arrestati un padre e un figlio responsabili di aver picchiato un medico e un infermiere, e minacciato un altro dottore, a luglio all’ospedale Policlinico. «Ma aggredendo me o i miei colleghi le persone cosa pensano di ottenere? – conclude Graziella – Noi siamo quelli che subiscono tutte le conseguenze di un sistema che non funziona, perché siamo la prima frontiera. E, ormai, ci sentiamo solo dei numeri. Se cade uno non fa niente, tanto ce ne sarà un altro».

Claudia Campese

Giornalista Professionista dal 2011.

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