Sbarco Aci Castello, le parole di chi ha chiamato i soccorsi  «Una signora piangeva e pregava, i bambini avevano freddo»

Il relitto di una barca a vela giace sugli scogli di Acicastello. Nella poppa dell’imbarcazione c’è impressa una scritta: Hakuna Matata. È il nome, comune a dire il vero a molte imbarcazioni la cui traduzione letterale è nessun problema, del mezzo nautico di fortuna che, in un mare in burrasca, ha trasportato 81 migranti di cui quattro bambini e due donne incinte di nazionalità siriana, irachena e iraniana, sbarcati sulle coste siciliane intorno alle 2 e 30 del mattino. Dopo ore di soccorsi, sul tratto di scogliera a ridosso di via Livorno sono rimasti solo i pezzi di legno andati in frantumi e l’albero maestro della barca. Nei muretti che delimitano la Nazionale ci sono ancora jeans e magliette bagnate e qualche banconota straniera. È l’epilogo di una nottata, una delle tante che poteva finire in tragedia, ma che fortunatamente pare non abbia riportato vittime: quella trascorsa da persone di tutte le età per raggiungere l’Italia. MeridioNews è riuscito a intercettare il testimone che per primo si è reso conto della situazione emergenziale e ha chiamato i soccorsi.

«Mi sono reso conto delle difficoltà della barca ad attraccare», racconta Fabrizio, un residente della zona, a MeridioNews. «Il mare era agitato – dice il giovane 30enne – non avevo idea che si trattasse di migranti ma ho capito che comunque si trattava di un’emergenza, perché c’era la tempesta». Così provvede a chiamare il 112, il numero unico per le emergenze, e si precipita sul posto a pochi metri dalla sua abitazione. «Appena sono arrivato sulla banchina – racconta – ho visto un fiume di gente in fila uno dietro l’altro». In quella che è una stretta pedana di cemento sugli scogli. «La prima cosa che mi ha colpito – prosegue Fabrizio – è stato un uomo con un bambino in braccio che mi chiedeva di chiamare la polizia urlando: “police, police”». Nel frattempo molti dei migranti provavano non senza difficoltà a uscire dell’imbarcazione ormai completamente adagiata sugli scogli. «Le urla di disperazione e le lacrime mi hanno sconvolto, non avevo mai vissuto una cosa simile», ammette il giovane. Perché, in attesa dei soccorsi, è stato Fabrizio a prestare i primi soccorsi e a fornire una felpa a un ragazzo di circa quattordici anni appena sbarcato e infreddolito. «Dopo un attimo di sbandamento ho capito che necessitavano di viveri e sono andato a casa a prendere acqua e crackers». Nel frattempo lo sbarco volgeva al termine e i migranti si sono riversati su via Livorno. In quel momento è arrivata la prima volante dei carabinieri e un’autoambulanza. «così mi sono rivolto agli operatori del 118 per gestire e razionare quello che ero riuscito a racimolare, ma non ho ottenuto molte risposte». Come a volere sottolineare una certa incapacità nella gestione dell’emergenza. 

«C’era una signora che piangeva e pregava e i bambini stavano morendo di freddo». Solo dopo due ore dallo sbarco sono arrivati ulteriori soccorsi: in totale tre ambulanze, una gazzella della guardia di finanza, un elicottero e una motovedetta della guardia costiera e tre volanti dei carabinieri. «A dire il vero, sebbene l’inerzia nel prestare il necessario aiuto a chi versava in situazioni di difficoltà – ammette Fabrizio – un carabiniere ha invitato una mamma a mettere il proprio bambino in macchina e ha accesso l’aria calda». Nel frattempo le ore, tra alcuni che zoppicavano e altri che versavano in evidente stato di agitazione, scorrevano e le lancette dell’orologio scoccavano le quattro. «Una volta assicuratomi che le persone fossero assistite, sono tornato a casa ma non dimenticherò mai quello che ho visto: l’inerzia delle forze dell’ordine e gli occhi di chi conosce davvero cosa sia la sofferenza».

Gabriele Patti

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