Sant’Agata, da oggi il tesoro aperto al pubblico «Nel mito formule magiche per aprire i cancelli»

Dopo l’apertura del 2012, a seguito del restauro straordinario degli interni, il sacello di Sant’Agata, la camera in cui sono conservate le reliquie e il famoso tesoro, sarà nuovamente aperta al pubblico da stamattina. Un evento raro, godibile dai catanesi dalle 7.30 alle 17 nella cattedrale di piazza Duomo, che, secondo le parole di monsignor Gaetano Zito, vicario per la Cultura della diocesi, «permetterà ai fedeli di entrare in contatto con uno dei luoghi storici della cristianità ma – aggiunge il sacerdote – anche di sfatare alcune dicerie popolari che vogliono la santa sepolta in un pozzo vicino a un fiume».

Per sacello, dal latino sacellum che vuol dire piccolo sacro o recinto sacro, si intende solitamente una nicchia o edicola votiva, ma in questo caso si tratta di uno spazio piuttosto grande che, nella tradizione etnea, prende il nome di cammaredda. Uno spazio di circa un metro e mezzo per un metro e mezzo, al cui interno si trovano le preziose reliquie, all’interno dello scrigno e il pregiato busto che i cittadini possono ammirare sul carro durante le festività di febbraio. L’opera, come spiega a MeridioNews lo studioso Iorga Prato, «venne scolpita nel 1376 dal senese Giovanni Di Bartolo e realizzata in argento», ed è sostanzialmente un pezzo unico. «Ne esiste solo uno simile a Roma, sempre opera del Di Bartolo – spiega il tecnico archeologo – In questo, i frammenti umani della santa sono posizionati all’interno del busto in modo da corrispondere con la figura. All’interno della testa – aggiunge – ci sono per esempio le ossa del cranio e così via».

Pochi sanno inoltre che l’intera figura è stata modellata intorno allo scheletro originale della martire catanese, mentre per i lineamenti del volto, specifica lo studioso, «sembra che sia stato fatto nel 1300 il calco del coperchio del sepolcro di Costanza d’Aragona, su cui, ad alto rilievo è rappresentata la regina stessa. Pertanto i lineamenti di Sant’Agata, nel busto, sono quelli della regina». Per quanto riguarda lo scrigno, in legno e argento, «venne rifuso dall’originale gotico che, spoglio dai frammenti argentei, si trova ora nella chiesa di Sant’Agata La Vetere». Oggetti ai quali si devono aggiungere i numerosi preziosi ed ex voto donati da uomini importanti della storia, come re e vicerè siciliani, o da famiglie notabili come quella di Vincenzo Bellini. Tra questi, anche la medaglia alla legione d’onore che il compositore ricevette dalle mani del re di Francia Luigi Filippo. 

Un tesoro di enorme valore che, proprio dopo il famoso furto del 18esimo secolo, venne protetto da una doppia cancellata, onde evitare altri episodi del genere. «Inizialmente i gioielli e le reliquie erano facilmente accessibili – continua Iorga Prato – Una volta compiuto il sacrilegio, la Chiesa corse ai ripari realizzando una grata in ferro, che è quella esterna, sostituendo l’antica porta in legno del 1500, oggi conservata al museo diocesano, con un altro cancello». «Da qui – aggiunge – nasce il famoso detto catanese “Dopo che c’ha rubaru a sant’Aita ci ficiru a potta i ferru“». 

Probabilmente dello stesso periodo sono anche i miti relativi al sepolcro della Santuzza, che vorrebbero il corpo della giovane protetto da sette cancelli raggiungibili solo attraverso un labirinto sotterraneo, bagnato da un fiume che, probabilmente potrebbe essere un riferimento all’Amenano. «Esiste una leggenda abbastanza interessante, che sembra ripercorrere un’analoga fantasia presente a Randazzo per Santa Maria. Questi cancelli si troverebbero alla fine di un percorso di giardini segreti e misteriosi, e si aprirebbero solo recitando formule sacre. Ideate per allontanare il demonio che avrebbe costruito i chiavistelli per chiudere la santa nel suo sepolcro». Una storia che somiglia molto a quello delle truvature, analoghi luoghi segreti e chiusi sparsi per la Sicilia, che somigliano molto a una trasposizione siciliana del famoso tesoro di Ali Babà. «Purtroppo per noi – conclude lo studioso – tutti i racconti sono privi del benché minimo fondamento e la verità è molto meno affascinante».

Mattia S. Gangi

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