Santa Maria di Licodia, quattro famiglie vivono allo Sprar Le storie terribili di chi è riuscito a fuggire dalla guerra

Fuggire dagli orrori della guerra, abbandonare la propria patria, per mettere al sicuro la propria famiglia in una nazione che non potrebbe essere più diversa, sia sul piano cultuale che su quello legale. Una fuga che può avvenire attraverso i corridori umanitari, sotto l’egida dell’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite, oppure con un rischio molto più alto, con i barconi, partendo dalla Libia o da altre località del Mediterraneo per arrivare sulle coste italiane. Ecco la storia degli ospiti dello Sprar di Santa Maria di Licodia, gestito dalla cooperativa Iride, guidata da Rocco Sciacca, con Giovanni Rasà nel ruolo di coordinatore. 

Dal novembre 2016 la struttura licodiese ospita complessivamente 20 persone, membri di quattro famiglie siriane e afgane. Rasà spiega che, allo stato attuale, il centro ospita due nuclei familiari siriani arrivati a Roma da uno dei tanti campi profughi sparsi per il Libano, la Giordania e la Turchia. Nella capitale sono stati identificati e, durante lo stesso giorno, è stato loro concesso lo status di rifugiato. Successivamente, sono stati trasportati a Catania per poi giungere a Licodia. 

Diversa è la storia delle rimanenti due famiglie che si trovano allo Sprar, una siriana e l’altra afgana, giunte in Italia sui gommoni. In Italia sono passati da un Cara (centro accoglienza per richiedenti asilo) per essere identificati. Poi sono stati in Nord Europa dove si trovano i parenti, ma per effetto del Trattato di Dublino, lo Stato che in quel momento li ospitava, le ha rispedite indietro nel Paese che per primo li avevo accolti, e dove per l’appunto erano stati identificati. I giornalisti incontrano due capi famiglia siriani: a fare da interprete con Ahmed, 44 anni, e Qasem, 36 anni, è il mediatore culturale dello Sprar Abdelilah Mounsabi

Ahmed, siriano di Homs, è scappato dalla sua città, dove lavorava come impiegato statale in una società dedita alla trivellazione e alla ricerca di sorgenti d’acqua, perché appartenente a alla minoranza turcomanna. Ha visto morire 22 componenti della propria famiglia tra cui il padre. Si trova a Licodia, con i suoi cari, dal marzo del 2017 e gode dello status di rifugiato. «Siamo andati via da Homs – dice -, poi ad Aleppo per giungere in Turchia, dove c’è un campo profughi, da dove siamo poi partiti per arrivare a Roma, e infine in Sicilia». 

Più movimentato si è rivelato il viaggio di Qasem e della sua famiglia verso l’Italia, a Santa Maria di Licodia dallo scorso maggio: in Siria viveva nella zona di Aleppo, dove svolgeva il lavoro di contadino. Per la paura di essere costretto ad arruolarsi in una delle fazioni belligeranti, ha preferito scappare alla ricerca di qualcosa di più sicuro. Dalla Siria, al Libano, passando da Cipro, poi per arrivare in Egitto e da lì a Tripoli: dove ha imparato il mestiere di piastrellista. Tuttavia, quando ha sentito alcuni connazionali parlare dell’Europa «come posto sicuro, ho deciso di imbarcarmi, con mia moglie e i nostri tre figli, dopo aver pagato 2mila dollari per un viaggio in barcone: grande nove metri, con a bordo oltre 120 persone. A soccorrerci – continua – è stata una nave italiana, che ci ha portati a Lampedusa. Poi ci hanno trasferiti in un campo vicino Roma. Da soli, infine, siamo stati a Milano, in Germania e in Belgio» 

Il loro obiettivo è quello di trovare una sistemazione sicura per le famiglie, un luogo dove ci sia lavoro. A Santa Maria di Licodia i figli di Ahmed si sono ambientati in modo perfetto. «Siamo dinanzi anche a storie di donne – racconta Giovanni Rasà – che vengono condannate a morte perché si rifiutano di chiudere una palestra. Come a Kabul, dove una donna di 32 anni, la titolare, ha aperto una struttura frequentata da altre donne. Questo non era visto di buon occhio dai talebani, che hanno obbligato la donna a chiuderla, ma lei si è ribellata. Da qui – conclude Rasà – la condanna a morte della donna e della sua famiglia»

Salvatore Caruso

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