Salvatore Novembre era un giovane manovale edile ventenne, ucciso l’otto luglio 1960 in piazza Stesicoro dalla forze dell’ordine. Era in corso uno sciopero – interrotto – indetto dalla Cgil dopo la strage di Reggio Emilia del 6 luglio, nella quale furono uccisi cinque operai. Come in tutta Italia, anche a Catania si scendeva in piazza contro Ferdinando Tambroni, democristiano il cui governo si reggeva grazie al voto decisivo dei parlamentari Msi: mai gli ex fascisti erano stati così vicini a un ruolo di governo. In quei giorni, di scontri ce ne furono parecchi, i primi a Genova, città partigiana, dove il Movimento sociale avrebbe voluto organizzare il proprio congresso, seguiti da altri a Roma che coinvolsero anche dei parlamentari. Ma il primo morto fu proprio in Sicilia: il cinque luglio a Licata fu ucciso Vincenzo Napoli, 24 anni, per il quale la protesta politica si mischiava con quella, ben più sentita dalla popolazione, sulle difficili condizioni economiche. Fu la prima morte di quello che fu definito luglio della memoria, a cui si aggiungono altre quattro uccisioni avvenute a Palermo l’otto luglio, sempre da parte delle forze dell’ordine.
Poco nota e poco narrata in questo contesto la storia di Salvatore Novembre. Ma, a distanza di 53 anni la sua morte fa ancora discutere in città. «La Cgil e l’Anpi, in occasione del cinquantesimo anniversario della tragedia, avevano preparato una lapide commemorativa. Novembre è simbolo dei giovani lavoratori sfruttati, ma l’amministrazione di Raffaele Stancanelli non diede l’autorizzazione», ricorda Luca Cangemi, segretario del circolo Olga Benario di Rifondazione Comunista ed ex parlamentare, che pochi giorni fa ha rilanciato il tema con una lettera dal titolo inequivocabile: «È l’ora che la città lo ricordi». Non si è fatta attendere la risposta del neo assessore alla Cultura del Comune di Catania Orazio Licandro (Comunisti italiani), che ha assicurato, su Facebook, che «verrà avviato l’iter per piazzarla».
Di Salvatore Novembre si conosce poco: ventuno anni, veniva da Agira, città nella quale si era sposato da poco tempo con Antonina Zimbili, la cui testimonianza venne portata per anni in giro durante le feste dell’Unità. La storia degli scontri in piazza del 8 luglio è stata invece raccontata in due libri. Il primo, Fermammo Tambroni. Salviamo la Costituzione, è di Nicola Musumarra, allora giovane dirigente del Pci, testimone oculare della morte di Novembre e ferito da un corpo di arma da fuoco della polizia. Del secondo, Catania Luglio ’60, è autore Andrea Micciché, storico e attualmente assegnista di ricerca all’Università di Catania.
«Era un operaio edile, non sappiamo quanto politicizzato. Partecipava come tanti giovani a queste manifestazioni per rivendicare l’aumento dei salari. Rivendicazioni socio economiche in una città che nel corso che negli anni ’50 era cresciuta a dismisura, oggetto di operazioni speculative», spiega Micciché. Esempio della speculazione di quegli anni è l’operazione del risanamento di San Berillo, da cui nacque l’attuale corso Sicilia. «Non è un caso che la tragedia avvenne proprio lì, in piazza Stesicoro, a pochi metri dai cantieri – spiega lo storico – Il lavoro a Catania si trovava facilmente, ma con bassi salari per queste masse che provenivano dall’interno dell’isola. C’era scarsa tutela sindacale, e spesso i membri della Cgil andavano nei cantieri a fare dei picchetti, convincendo i presenti a scioperare». Probabilmente quel giorno per Salvatore Novembre era iniziato con il lavoro in cantiere, coinvolto quasi per caso in uno sciopero partito da piazza Manganelli e subito sciolto dalla polizia. Erano circa un migliaio i manifestanti, che proseguirono una guerriglia urbana contro la polizia, con violenti disordini fino alla notte.
«L’elemento politico antifascista, caratteristico del luglio ’60, era meno presente in Sicilia rispetto al resto d’Italia: a Licata, città agricola con altissima disoccupazione, si protestava soprattutto per la mancata edificazione del polo industriale, che verrà poi spostato a Porto Empedocle. Durante il conflitto a fuoco all’interno della stazione era presente anche il sindaco», racconta Micciché. Ma la mobilitazione delle sinistre ebbe un ruolo di rilievo anche nel capoluogo etneo: quel giorno la polizia assediò la sede della Camera del lavoro, che come oggi si trovava in via Crociferi. Dentro c’erano sindacalisti e lavoratori. «Se l’assedio non si trasformò in qualcosa di simile a quanto accaduto a Genova quarant’anni dopo alla scuola Diaz, lo si deve all’eroico intervento di Salvatore Rindone, allora segretario della Cgil: uscì da solo dalla camera del lavoro, passando il cordone di poliziotti, e arrivò a parlare con il questore. Che fece uscire tutti illesi, ma dopo una umiliante perquisizione», racconta lo storico.
Micciché invita a «non fare l’errore di confondere la piazza con il consenso elettorale: la manifestazione del luglio ’60 fu una manifestazione in cui ci furono forti condizionamenti dal clima polarizzato di quei giorni, con polizia legittimata a reprimere sparando, la manifestazione era considerata eversiva», spiega lo storico. La città del resto è la stessa che solo dieci anni dopo sarebbe risultata elettoralmente la più nera d’Italia, con oltre il venti per cento dei voti al Msi. «Possiamo considerare l’esito del ’70 come un voto di protesta, come quello degli scorsi mesi a Catania per il Movimento 5 stelle. Oggi come allora la protesta fu riassorbita elettoralmente dai partiti dominanti, allora la Dc che aveva un profilo di destra a Catania», racconta lo storico. Ma non tutto di quel luglio 1960 andò perduto politicamente. «I fatti del luglio ’60 hanno unificato la sinistra italiana da nord a sud, associandola definitivamente con l’antifascismo». E in un quadro del genere la morte di Salvatore Novembre, giovane lavoratore di Agira, resta un simbolo di quel periodo. Ma per decenni è stata poco più che un fatto di cronaca.
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