«Credo sia solo la punta dell’iceberg. Da anni penso che il nostro Paese abbia toccato il fondo e, invece, a ogni nuova inchiesta scopriamo di essere finiti sempre più in basso». Salvatore Borsellino non nasconde la sua amarezza. Le ultime intercettazioni sul caso Saguto, pubblicate stamani da La Repubblica, sono l’ennesimo «spaccato del degrado». Frasi choc. Insulti pronunciati da un magistrato nei confronti dei figli di Paolo Borsellino, ucciso dal tritolo di Cosa nostra 23 anni fa.
Le cimici della Guardia di finanza registrano lo sfogo dell’ex presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, indagata per corruzione nell’inchiesta della Procura di Caltanissetta sulla gestione dei beni confiscati. Al telefono con un’amica, dopo aver fatto da madrina a un’iniziativa antimafia, il magistrato si lascia andare alle invettive. «Ma perché mi….a ti commuovi a 43 anni per un padre che è morto 23 anni fa? Che figura fai? Ma che… dov’è uno.. le palle ci vogliono. Parlava di sua sorella e si commuoveva, ma vaff….o» dice il giudice riferendosi all’intervento di Manfredi Borsellino davanti al capo dello Stato, Sergio Mattarella. E sua sorella Lucia? «È cretina precisa».
«Un comportamento inqualificabile – dice a MeridioNews Salvatore Borsellino, fratello del giudice ucciso nella strage di via D’Amelio -. Il linguaggio e quello che dice lasciano storditi». Salvatore, da tempo impegnato con le Agende Rosse nella ricerca della verità sulla strage di via D’Amelio, non trova le parole. Quelle adatte a descrivere il suo stato d’animo. È arrabbiato. Un fiume in piena. «La verità è che nel nostro Paese se i familiari delle vittime di mafia fanno gli inconsolabili, quelli che una volta l’anno, intervistati dai giornalisti, ricordano i loro cari va tutto bene – dice -. Al contrario, se provano a fare sentire la propria voce, a chiedere verità e giustizia, danno fastidio e vengono delegittimati».
Nei confronti della Saguto e delle sue parole il fratello del giudice ucciso da Cosa nostra prova «disgusto, disprezzo, senso di rigetto. Un magistrato a cui era stato affidato un incarico importante…» lascia la frase monca, assalito dalla rabbia e poi sbotta: «Ci si dovrebbe inginocchiare davanti a Manfredi e Lucia, davanti a quello che hanno vissuto e continuano a vivere. A 23 anni di distanza su quella strage non c’è verità: è una ferita che non può rimarginarsi».
Il quadro che emerge dalle indagini resta per Borsellino «desolante». Di più. «Aberrante». E le colpe non sono solo individuali. «Non spetta certo a me giudicare – dice -, ma penso, a rigore di logica, che se c’è un pezzo di meccanismo che non gira, allora qualcuno avrebbe dovuto accorgersi dell’intoppo. Nessuno ha sorvegliato sull’operato della Saguto? Chi doveva controllare cosa ha fatto?».
Certo è che quello che emerge dalle carte dell’inchiesta è un «danno a tutta la magistratura e al fronte antimafia», anche se, ammette Salvatore Borsellino, c’è sempre più «un’antimafia di facciata usata per fare carriera dentro le istituzioni, quelle stesse istituzioni che non pronunciano una parola di solidarietà verso Di Matteo, condannato a morte da Cosa nostra». Resta l’amarezza e la rabbia nei confronti di un Paese, in cui «per 20 anni è stata possibile una congiura del silenzio sulla trattativa tra la mafia e pezzi di Stato, costata la vita a mio fratello». Il fondo? «Forse ancora non l’abbiamo toccato» conclude.
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