Rita Atria, la settima vittima di via D’Amelio «L’unica speranza è non arrendersi mai»

«La morte del giudice Falcone ripropone in termini drammatici il problema della mafia. Il candidato esprima le sue idee sul fenomeno e sui possibili rimedi per eliminare tale piaga». Vent’anni faRita Atria si trova costretta a dover svolgere questa traccia agli esami di Stato. Nata e cresciuta a Partanna – un piccolo comune incastrato nella valle del Belice – è figlia di don Vito, un piccolo boss legato alla famiglia Accardo. Dopo l’omicidio del padre, si lega moltissimo al fratello Nicola, tanto da diventare la protettrice di tutti i suoi segreti. Ma anche lui qualche anno dopo cade sotto i colpi della mafia, ucciso davanti agli occhi della moglie Piera, che sceglie di collaborare da subito con le autorità, minando irreparabilmente i rapporti all’interno della famiglia Atria e infangandone il nome agli occhi del resto del paese.

Sola e in balia di maldicenze e preoccupazioni, Rita si presenta al procuratore di MarsalaPaolo Borsellino. Tutte le parole, i nomi e i collegamenti che la ragazza custodiva diventano le basi per una serie di arresti che nessuno – anche a distanza di vent’anni – ancora perdona a quella picciridda.

Partire, abbandonare la madre – l’unica ancora che la lega alla Sicilia – vivere per mesi sola. La strada intrapresa dalla giovane è ardua, ma che non abbia rinnegato quel passo è evidente ancora oggi in ogni riga di un tema di maturità scritto vent’anni fa.

 

«La morte di una qualsiasi altra persona sarebbe apparsa scontata davanti ai nostri occhi, saremmo rimasti quasi impassibili davanti a quel fenomeno naturale che è la morte del giudice Falcone, per chi aveva riposto in lui fiducia, speranza, la speranza di un mondo nuovo, pulito, onesto, era un esempio di grandissimo coraggio, un esempio da seguire. Con lui è morta l’immagine dell’uomo che combatteva con armi lecite contro chi ti colpisce alle spalle, ti pugnala e ne è fiero. Mi chiedo per quanto tempo ancora si parlerà della sua morte, forse un mese, un anno, ma in tutto questo tempo solo pochi avranno la forza di continuare a lottare. Giudici, magistrati, collaboratori della giustizia, pentiti di mafia, oggi più che mai hanno paura, perché sentono dentro di essi che nessuno potrà proteggerli, nessuno se parlano troppo potrà salvarli da qualcosa che chiamano mafia.

Ma in verità dovranno proteggersi unicamente dai loro amici: onorevoli, avvocati, magistrati, uomini e donne che agli occhi altrui hanno un’immagine di alto prestigio sociale e che mai nessuno riuscirà a smascherare. Ascoltiamo, vediamo, facciamo ciò che ci comandano, alcuni per soldi, altri per paura, magari perché tuo padre volgarmente parlando è un boss e tu come lui sarai il capo di una grande organizzazione, il capo di uomini che basterà che tu schiocchi un dito e faranno ciò che vorrai.
Ti serviranno, ti aiuteranno a fare soldi senza tener conto di nulla e di niente, non esiste in loro cuore, e tanto meno anima. La loro vera madre è la mafia, un modo di essere comprensibile a pochi.

Ecco, con la morte di Falcone quegli uomini ci hanno voluto dire che loro vinceranno sempre, che sono i più forti, che hanno il potere di uccidere chiunque. Un segnale che è arrivato frastornante e pauroso. I primi effetti si stanno facendo vedere immediatamente, i primi pentiti ritireranno le loro dichiarazioni, c’e chi ha paura come Contorno, che accusa la giustizia di dargli poca protezione. Ma cosa possono fare ministri, polizia, carabinieri? Se domandi protezione, te la danno, ma ti accorgi che non hanno mezzi per rassicurare la tua incolumità, manca personale, mancano macchine blindate, mancano le leggi che ti assicurino che nessuno scoprirà dove sei. Non possono darti un’altra identità, scappi dalla mafia che ha tutto ciò che vuole, per rifugiarti nella giustizia che non ha le armi per lottare.

L’unica speranza è non arrendersi mai. Finché giudici come Falcone, Paolo Borsellino e tanti come loro vivranno, non bisogna arrendersi mai, e la giustizia e la verità vivrà contro tutto e tutti. L’unico sistema per eliminare tale piaga è rendere coscienti i ragazzi che vivono tra la mafia che al di fuori c’è un altro mondo fatto di cose semplici, ma belle, di purezza, un mondo dove sei trattato per ciò che sei, non perché sei figlio di questa o di quella persona, o perché hai pagato un pizzo per farti fare quel favore.

Forse un mondo onesto non esisterà mai, ma chi ci impedisce di sognare. Forse se ognuno di noi prova a cambiare, forse ce la faremo».

Erice, 5 giugno 1992

 

Quel 5 giugno 1992 Rita Atria avrebbe dovuto pensare agli esami, alle vacanze, a cosa fare da grande. Ma qualche mese prima una bomba aveva messo fine alla vita del giudice Giovanni Falcone e anche lo zio Paolo, come lo chiamava Rita, sapeva di avere letteralmente i giorni contati. Una settimana dopo quel 19 luglio di vent’anni fa muore la settima vittima di via D’Amelio. Rita Atria sente su di sé il peso schiacciante di una vita ormai impossibile. Né pietà, né compromessi, Rita non li ha mai presi in considerazione. Il 26 luglio del 1992 si lancia dal settimo piano di un palazzo romano, in quel viale Amelia dal nome beffardamente simile al luogo dell’omicidio di Borsellino e della sua scorta.

Le sue ultime parole, prezioso testamento, racchiudono uno sferzante messaggio da tenere sempre in vita. In onore di chi come lei la mafia l’ha sconfitta davvero.

«Ora che è morto Borsellino, nessuno può capire che vuoto ha lasciato nella mia vita.
Tutti hanno paura ma io l’unica cosa di cui ho paura è che lo Stato mafioso vincerà e quei poveri scemi che combattono contro i mulini a vento saranno uccisi.
Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c’è nel giro dei tuoi amici, la mafia siamo noi ed il nostro modo sbagliato di comportarsi.
Borsellino, sei morto per ciò in cui credevi ma io senza di te sono morta».

 

 

[Testo e foto pubblicati per gentile concessione dell’associazione antimafie Rita Atria]

Redazione

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