Regione, troppi dirigenti esterni e troppe ‘rotazioni’

da Francesco Scillaci
dirigente regionale
riceviamo e volentieri pubblichiamo

I pesanti giudizi della Corte dei Conti in occasione della recente parifica del bilancio 2012 sullo stato dell’Amministrazione regionale (in particolare sulla dirigenza), ed il successivo intervento su questo quotidiano di Francesco Busalacchi, direttore tra i più autorevoli della vecchia guardia, che ha gettato un sasso sulla stagnante e pressocché monolitica informazione riguardante la Regione, offrono un’occasione utile per una riflessione “dall’interno” sui temi sollevati.

Ampliando per un momento la panoramica, è sotto gli occhi di tutti il fallimento storico-politico dell’Autonomia speciale, strumento concepito per uno sviluppo della Sicilia tarato sulle proprie peculiarità e ricchezze (naturali e culturali) ed invece distorto verso rovinosi obiettivi di industrializzazione e di salvaguardia di inaccettabili privilegi, fino ad essere sostanzialmente svuotato nel 2001 con la riforma del titolo quinto della seconda parte della Costituzione. Ormai, la “specialità” è un inutile feticcio cui si aggrappano anacronistici (e interessati) sicilianismi.

Tralasciando l’analisi delle complesse ragioni di una disfatta così epocale, non si può sottacere che essa trova fondamento sui nostri atavici difetti, ossia l’esasperato familismo e individualismo, con una scarsa propensione al rischio d’impresa (soprattutto associata), i quali riflettono una carenza del senso del bene comune, terreno fertile che ha consentito il proliferare della criminalità mafiosa.

La classe politica regionale, anzicché cercare di riscattare tali condizioni di arretratezza nell’interesse della collettività, ha in qualche modo incarnato tali vizi, puntando principalmente al mantenimento del consenso e del potere, mediante una gestione clientelare arraffatrice di risorse pubbliche.

In quest’ottica è stata ad esempio utilizzata la leva occupazionale, rivolta più che a fini produttivi a mero ammortizzatore sociale, come dimostrano le massicce infornate di personale degli anni ‘80, proseguite ed incrementate negli ultimi anni sotto la spinta della crisi economica, allorquando, a causa del blocco delle assunzioni, hanno assunto il connotato della precarietà, legando migliaia di persone al miraggio della stabilizzazione, tenuto in vita con un’infinita serie di proroghe, di chiaro stampo elettorale.

Di contro, si è fatto un uso marginale dello strumento prescritto dalla Costituzione, il pubblico concorso – basti dire che il concorso per dirigente amministrativo cui ho partecipato, bandito nel 1986, veniva dopo oltre vent’anni dal precedente (al quale aveva partecipato il dott. Busalacchi), e che dai primi anni ‘90 del secolo scorso non vengono più espletate selezioni pubbliche – il che spiega il progressivo impoverimento del livello medio di professionalità nell’Amministrazione.

Una grande occasione è stata poi sprecata con la riforma della legge regionale n. 10 del 2000, che ha configurato la dirigenza regionale con pienezza di attribuzioni, prevedendo una procedura selettiva per il passaggio dalla terza alla seconda fascia – rimasta inattuata per precisa volontà della politica, interessata ad una platea più ampia da cui attingere con maggiore discrezionalità – lasciando due grandi incompiute:

– l’attuazione del principio della separazione tra l’attività di indirizzo e controllo spettante agli organi politici e la gestione amministrativa di pertinenza esclusiva alla dirigenza, asse portante della riforma avviata con il D. lgs. n. 29 del 1993;

– la devoluzione agli enti locali di funzioni e risorse (nonché personale) della Regione, secondo il criterio di sussidiarietà (costituzionalizzato con la riforma del 2001), per il quale le funzioni amministrative vanno allocate quanto più possibile in capo agli Enti più vicini ai cittadini.

Soffermandoci sul primo aspetto, separazione vuol dire distinzione, e non separatezza, dato che la dirigenza costituisce il pilastro fondamentale per declinare sul piano amministrativo gli indirizzi e i programmi degli organi rappresentativi della collettività, in che si sostanzia la “primazia” della politica.

Ma, purtroppo, la politica che conosciamo non sembra condividere questi elementi basilari di galateo istituzionale, e la situazione sotto questo aspetto è peggiorata con l’attuale Presidente, che non perde occasione per sferrare attacchi indiscriminati contro la dirigenza e l’intero apparato amministrativo regionale.

Difatti, è oramai conclamato l’utilizzo distorto dello Spoil system nella dirigenza apicale, applicato secondo logiche di mera appartenenza sganciate dal merito professionale e dalle esigenze organizzative, determinando disfunzioni presso i Dipartimenti – come avvenuto anche di recente e rilevato anche dalla Corte dei Conti – nonostante la giurisprudenza e la stessa Corte Costituzionale continuino ad insistere sulla necessità di garantire la stabilità e la continuità amministrativa, in ossequio ai principi di buon andamento ed imparzialità (art. 97 Cost.), non essendo stata abrogata l’altra norma fondamentale secondo la quale “I pubblici impiegati sono a servizio esclusivo della nazione” (art. 98).

Disfunzioni aggravate dalle cosiddette “rotazioni” messe in atto dall’inizio dell’anno, le quali, in mancanza di criteri (non a caso previsti dal CCRL della dirigenza, che non contempla il trasferimento d’ufficio) e di preventive intese interdipartimentali circa il numero e le tipologie professionali richieste, sono apparse come torbide e talvolta contraddittorie epurazioni, costringendo tra l’altro ad una forzata e duratura inattività numerosi dirigenti.

Proprio le modalità non proprio trasparenti degli avvicendamenti dei dirigenti nella preposizione alle strutture intermedie (aree e servizi) e di base (unità operative) confermano la ragion d’essere della clausola di salvaguardia (art. 42 CCRL), criticata anche dalla Corte dei Conti, secondo la quale al dirigente che non abbia riportato una valutazione negativa sul precedente incarico l’Amministrazione deve proporre un incarico equivalente, cui corrisponde cioè una retribuzione di posizione della stessa fascia ovvero inferiore del 10% rispetto a quanto percepito in precedenza.

Si tratta di una disposizione a garanzia, più che della retribuzione, dell’autonomia operativa del dirigente nei confronti di indebiti condizionamenti dei vertici amministrativi e politici, approntando una forma di tutela – quantomeno sul piano economico – nel momento cruciale delle scelte per il conferimento degli incarichi dirigenziali, di esclusiva pertinenza dei Dirigenti apicali.

Nell’ultima tornata di incarichi appaiono in aumento, purtroppo, i casi di non corretta applicazione (e talvolta di totale omissione) delle procedure prescritte, così come le resistenze avverso l’esercizio del diritto di accesso agli atti, con l’enorme incremento di contenzioso che ne conseguirà.

Così facendo si otterrà un aumento della produttività, se non degli Uffici, degli…studi legali.

Cominciano a pervenire copiose, difatti, le condanne dell’Amministrazione in favore di dirigenti che hanno finalmente ottenuto giustizia (ad esempio il caso Genchi, avente risvolti anche penali, mentre di recente è pervenuto a sentenza definitiva il caso Sagona, in cui la Corte di Cassazione ha riconfermato la necessità di valutazioni anche comparative tra i candidati), alle quali dovrà seguire l’attivazione della Corte dei Conti per i danni erariali causati dai responsabili.

Infine, a fronte dei proclami sulla riduzione degli sprechi, non si giustifica il mantenimento di incarichi di Dirigenti generali esterni, dal costo pro-capite di circa 250.000 euro annui, oltre ad un plotone di dirigenti di altre Amministrazioni comandati (a spese della Regione, s’intende, mentre la stessa continua a pagare il proprio personale comandato presso altre Amministrazioni), in presenza di una platea di dirigenti interni ritenuta troppo numerosa, ove si consideri che tali incarichi presuppongono l’attestazione di “particolare e comprovata qualificazione professionale, non rinvenibile nei ruoli dell’Amministrazione”, cosa poco plausibile, come osservato dalla stessa Corte dei Conti.

La stessa Corte lamenta in proposito la mancanza di regole – oltre alla peculiarità della norma regionale che prevede lo (scandaloso!) tetto percentuale del 30% rispetto all’8-10% stabilito dallo Stato – ma basterebbe l’applicazione di quelle esistenti, dato che la norma regionale (art. 9 comma 8 L.r. 10 del 2000) fa espresso rinvio alle disposizioni statali (comma 6 dell’art. 19 del D. lgs n. 29 del 1993, ora D. lgs. 165 del 2001), che stabiliscono, tra l’altro, il limite di durata massimo dell’incarico esterno in tre anni (non rinnovabile, dato che si tratta di eccezione alla norma costituzionale del pubblico concorso).

Insomma, si appalesa l’esigenza di una tempestiva e rigorosa verifica da parte di tutti gli Organi competenti.

Ed allora, ciascuno faccia la propria parte, altrimenti i canonici rimbrotti annuali all’Amministrazione regionale rischiano di risolversi in triti rituali senza costrutto, o, peggio, in una beffarda pantomima.

 

Redazione

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