Quel business chiamato lotta alle mafie Sulla pelle di tutte le «vittime di Stato»

«La nostra è un po’ un’avventura». È questo, in una frase di Luigi Bonaventura, la missione che ha dato vita all’associazione di Palermo Sostenitori dei collaboratori e dei testimoni di giustizia. Un’avventura dagli sviluppi e dagli esiti tutti da scrivere. Perché smontare certi pregiudizi, etichette e falle non è sempre facile, specie se a metterci la firma è lo Stato. Che tutto dovrebbe essere, meno che un nemico da combattere. Eppure non va sempre così. Non, almeno, per chi ha deciso di voltare le spalle alla mafia iniziando, insieme all’intera famiglia, un percorso di collaborazione. Che non si chiude alla fine dei famosi 180 giorni di isolamento dal mondo per dire tutto ai magistrati. È un cammino che, una volta intrapreso, non si può rinnegare e che ti porterà sempre più lontano da ogni parvenza di una vita normale. Ma le storie dei tanti uomini e donne che dicono no alle mafie ci raccontano tutte di un sistema che non è in grado di proteggere nessuno, ma che anzi paradossalmente mette a rischio. Di un sistema che prevede, per ognuna di queste vite, un reinserimento socio-lavorativo, senza però di fatto trovare alcun lavoro. Vite a rischio. E, come se questo non bastasse, ignorate dai più. Per i collaboratori, escluse le famiglie che li supportano, ci sono solo i collaboratori.

Una realtà che l’associazione con sede a Palermo sta piano piano tentando di ampliare, portando alla luce tutte le falle di quel sistema che dovrebbe tutelarli ma che non ci riesce, e facendo rete. In modo che storie come le loro non arrivino più solamente al collaboratore di giustizia che vive in segreto nel paese a fianco. Ma a chiunque. Alla gente comune soprattutto. «Questa è appunto un’avventura, quella di una serie di persone che stanno facendo rete. Perché lo sappiamo che dovremo combattere contro dei giganti, ne abbiamo già preso consapevolezza – spiega Luigi Bonaventura, che di questa associazione è stato l’ideatore -. Ci stiamo buttando in questa cosa perché vogliamo crescere, vogliamo raccogliere sempre più persone che magari fanno già la propria battaglia in modo individuale e di cui non conosciamo nemmeno l’esistenza. Ecco, stiamo cercando di conoscerci e riconoscerci. Vogliamo fare finalmente qualcosa di buono, visto che molta gente è in forte debito con la propria fama». Gente, cioè, che con parole e temi come “legalità” e “antimafia” si è un po’ riempita la bocca, negli anni, dimostrando ben poco oltre a quello sbandierato talento per sfilare sul tappeto rosso di turno. Le cronache ci raccontano, poi, che alcuni di questi antimafiosi da copertina si sono distinti per ben altro che la semplice presenza di rito alle commemorazioni e ai discorsi di circostanza, uguali tutti gli anni, a tutti gli anniversari di sangue.

Facendo, ad esempio, il contrario di quanto pubblicamente predicato, all’ombra spesso di un ruolo di potere e di (presunta) legalità. Due di questi sono diventati l’emblema di un sistema molto più ampio e che di certo non è cominciato – né finito, forse – con loro. E così abbiamo coniato il sistema Saguto, dal nome dell’ex presidente delle Misure di prevenzione del tribunale di Palermo Silvana Saguto, per anni una delle sezioni fiore all’occhiello del palazzo di giustizia, oggi sotto processo perché presunta autrice di un cerchio magico. Uno di quelli dove le magie non sono conigli bianchi che sbucano da un cappello, ma assegnazioni arbitrarie di incarichi nelle aziende sotto sequestro o confiscate, sulla base non di un’effettiva competenza in questo o quell’altro ambito o di un merito, ma di parentela e amicizia. Per ottenere in cambio favori. E uno strapotere che può ubriacare e confondere un po’ le idee. «Quale mafia hai combattuto?», si chiede oggi Pietro Cavallotti, rimasto vittima, insieme a tutta la sua famiglia, di quel presunto sistema illecito messo in piedi dall’ex magistrata, radiata dal Csm. «Eri il giudice supremo e tutti gli altri non contavano un cazzo, erano solo carne da macello, numeri da usare per la propaganda dei sequestri e delle confische alla “mafia”, patrimoni da spolpare e opportunità di lavoro per i raccomandati», si sfoga in un lungo post affidato ai social.

«Gli imprenditori mafiosi non erano quelli condannati per mafia – aggiunge -. Erano coloro che in Sicilia riuscivano a creare lavoro e ricchezza. Tutti questi dovevano essere perseguitati, i loro beni spartiti a persone senza alcuna esperienza o competenza specifica. I lavoratori erano quantomeno complici e meritavano di essere licenziati e sostituiti con le persone di comprovata fiducia. Era inammissibile per te che dei lavoratori umili con la terza media diventassero imprenditori di successo. La giustificazione non poteva che essere la mafia. Voi, invece, con tre lauree e altrettanti master avete distrutto tutto. Noi con l’umiltà, il lavoro e il rispetto degli altri avevamo creato. Ci hai tolto tutto: l’azienda, il lavoro, la casa e la libertà. Nonostante la nostra innocenza fosse scolpita in una sentenza passata in giudicato, hai ritenuto che tutto il nostro patrimonio fosse il frutto di un reato che non esiste». Uno sfogo doloroso, fatto di riflessioni, appunti e domande che ancora, malgrado indagini e processi, non hanno portato nessuna risposta a tutti quei «perché?».

Ma ce n’è un altro, di caso. Quel sistema numero due, quello Montante, dal nome questa volta dell’ex numero uno di Confindustria Sicilia Antonello Montante, condannato lo scorso maggio in abbreviato a 14 anni per quel potere occulto parallelo con cui spiava politici, magistrati, esponenti delle forze dell’ordine. Lui, autodefinitosi paladino dell’antimafia, in una stanza segreta della sua casa di Serradifalco, nascondeva documenti e materiale, dossier praticamente su chiunque che, in questo modo, diventava controllabile, ricattabile. Definendo «mafiosi gli avversari» e antimafiosi chi invece assecondava il suo pensiero. Un’antimafia, la sua, «quale forma di business utile a garantire un posto ai tavoli che contano», per dirla con la giudice Luparello, che lo ha condannato. E dire che per anni, per tutti, “antimafia” è stato – inconsapevolmente – proprio tutto questo, almeno in parte. Lo sono stati le Silvana Saguto e gli Antonello Montante. Ma tanto basta per sporcare tutto. Per inquinare e avvelenare anche quella parte che, al contrario, non è mai stata né di facciata né a tramare nell’ombra. E che vorrebbe oggi ripulirsi, in qualche modo, riscattarsi, prendere le distanze. Un’esigenza che, in modo diverso, sentono oggi in tanti. Tra questi ci sono proprio quelli che la mafia l’hanno conosciuta da vicino, l’hanno sperimentata, toccata, adorata. L’hanno professata fino a rinnegarla per sempre, buttandola fuori dalla propria vita e da quella, soprattutto, della propria famiglia. Sono i collaboratori di giustizia. Che però, malgrado quella scelta di civiltà che si replica ogni giorno finché campano, in pochi prendono sul serio. Preferendo spesso diffidenza e sospetto per approcciarsi alle loro storie, alle loro vite.

«Nel 2012 finalmente ho imparato a usare il computer. Subito ho creato un mio personale profilo su Facebook, senza omettere che sono un collaboratore. Ma quando inviavo una richiesta d’amicizia a qualcuno, pure la gente più “buona” sembrava pronta a farmi fucilare o a chiamare i carabinieri. Non so quante volte mi hanno bloccato il profilo, a un certo punto ho smesso di contarle – racconta Luigi Bonaventura -. Oggi però ho 5mila contatti. Per dire che la strada è lunga ma intanto qualcosa è stato fatto. Tra i fedelissimi che sostengono l’associazione Sostenitori dei testimoni e dei collaboratori di giustizia e il progetto ce n’è tanti che per primi in passato ci hanno attaccato, quindi stiamo raccogliendo tantissimo. Però è vero che sono mostruosi certi poteri». Come quello chiamato, appunto, Stato. Contro la cui parola, se sei un collaboratore, è difficile spuntarla. Tanto che in molti, nel bel mezzo di quella nuova vita da fantasma senza diritti né tutele, prendono le distanze, dicendo addio a quel programma nato in teoria per proteggerli. Preferendo l’incognita della vendetta mafiosa, che quella di una vita che non riparte mai. Un modo, in effetti, per tirarsi fuori da un programma di protezione che non protegge c’è. Si chiama capitalizzazione. «È l’ultimo barlume di speranza che noi abbiamo, dopo una vita in cui solo Dio sa se riusciremo a sopravvivere», dice Luigi.

Solo che «così per come viene gestita oggi è solo una chimera, un’illusione. In moltissimi sono costretti a prendere quel poco che danno e andare via dal programma, come ha deciso di fare ad esempio Benito Morsicato quattro mesi fa. Così come la possibilità di crearsi un vero inserimento socio-lavorativo. Come si fa? Dovrebbe esserci un percorso che inizia dal primo giorno. Se mi dai un tutor che mi accompagni nella gestione di questa capitalizzazione e la rendi più snella e non così infernale da poterla ottenere, io posso aprire un’attività, che sia un’ortofrutta o un’edicola, in questo modo do lavoro a me e a mia moglie. Così ci potremmo di nuovo finalmente inserire nel circuito socio-lavorativo, ma hanno reso questa capitalizzazione impossibile da attingere – spiega -. Dopo non aver ceduto a tutte le provocazioni ed essere stato trovato in fallo, loro alla fine preferiscono revocarla. Su niente di scritto ti dicono che devi per forza prendere una casa e con 80mila euro è difficile prendere una casa, ci viene detto tutto a voce. Dopodiché la commissione stabilisce che ti danno questi soldi, poi passa dal servizio centrale, poi passa dal Nop, molti si sono trovati la capitalizzazione dimezzata per presunti addebiti di cui nessuno sa dare spiegazioni né prove. Ma cosa accade per giunta? Che quando sei riuscito a fare un progetto di vita e la commissione te l’ha deliberato, con questi debiti che ti attribuiscono automaticamente si abbassa la portata della somma che tu puoi recepire, di conseguenza ti cade quel progetto vita e in sintesi spesso arrivi al punto che hai 40mila euro ma non ne puoi usufruire, non per quello che vorresti almeno, tipo ripartire da zero, e quindi è come se non li avessi. Sembra una cosa fatta sistematicamente in questo modo solo per fregarci. E che, ancora di più, ci rende vittime di Stato».

Tutte vite, insomma, ostaggio dello Stato, dove i tuoi diritti vengono completamente cancellati. «Ma la cosa terribile è il ripetere continuamente “scusa” alla propria famiglia per dove li hai portati, chiedere perdono per le mani in cui li hai affidati, questa è una cosa che ti angoscia. In genere però una famiglia, che questa scelta l’ha condivisa e sostenuta, si affanna a spazzare via questi cattivi pensieri e queste colpe che in realtà non sono colpe – continua -. Il peso della responsabilità che sento addosso però è enorme, perché ho annullato la vita di due nuclei famigliari. Quando ho deciso di dissociarmi avrei potuto prendermi i soldi che avevo da parte e andarmene. Non rischiavo niente di significante, un giorno mi sarebbero arrivati cinque, sei, otto anni e me li sarei andato a fare. La mia famiglia all’estero con quei soldi avrebbe preso l’aereo per venire a fare il colloquio con me, tornando poi a casa. Avrei finito di scontare la mia pena e sarei uscito senza una condanna a morte sulla testa, senza il marchio dell’infamia sulle spalle, che in un paese come il nostro è un marchio che pesa tantissimo», dice. Pensando per un attimo alla vita che avrebbe avuto se la sua scelta non fosse stata quella che da 13 anni prende ogni giorno, quella di collaborare con lo Stato.

«La vera collaborazione in realtà non la vuole nessuno, basta una collaborazione arrancata, arraffata, che mantiene tutto in circolo questa catena di montaggio, questa industria, questo business che è la lotta alle mafie. Da ‘ndranghetista credevo di aiutare i più deboli – racconta -, poi ho capito che non ero dalla parte giusta. Combatto da 48 anni, ho visto e fatto tanto male, sono cresciuto in una famiglia che ha fatto non so più quante faide: significa morti ammazzati, perquisizioni, arresti, colloqui, donne che gridano, uomini che usano la violenza, e tante tante botte. Ho visto di tutto e di più in questa vita, dalla droga alla morte, eppure in 48 anni io oggi mi sento davvero felice di cercare di fare qualcosa di buono per gli altri, sembrerà assurdo. Sono in trincea, però, è vero. Ma oggi sono libero di scegliere quello che nella vita voglio fare e che vale la pena fare». Come, a quanto pare, tentare di rifondare un’antimafia che sia seria, trasparente e, soprattutto, dalla parte giusta.

Silvia Buffa

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