Quei denuncianti usa e getta dimenticati dallo Stato «Noi visti peggio dei mafiosi, uccisi dall’indifferenza»

«Genocidio». È una parola forte quella che un collaboratore di giustizia sceglie per descrivere in breve la propria condizione e quella di tanti altri come lui. Un massacro sistematico e continuo che si consuma nell’ombra. E che coinvolge irrimediabilmente anche le loro famiglie. Mogli, figli, madri, padri, suoceri, fratelli e sorelle, non c’è scampo per nessuno. Sia che la punizione sia una vendetta della mafia, sia che si tratti invece dell’indifferenza di uno Stato che ti volta le spalle annullando di fatto la tua vita. Altro che agi, protezione e reinserimento sociale. Non è stato così ad esempio per Pino Orazio, collaboratore etneo ritrovato con un colpo alla testa dentro a un garage, poco dopo essere uscito dal programma di protezione. O altrettanto per Domenico Cera, misteriosamente finito fuori strada a Teramo e ritrovato morto, e di tutti quelli che si sono visti recapitare lettere minatorie pur vivendo in una località in teoria segreta. E poi c’è anche Marcello Bruzzese, fratello di un collaboratore di giustizia, massacrato da un commando di killer a Pesaro. Un bollettino di guerra. E andando a ritroso i casi diventano davvero tanti. «Non si muore solo di lupara», osserva Luigi Bonaventura. Lui è uno di quei fantasmi perseguitato dalla mafia e dimenticato dalla società civile, che non sa aiutarlo.

Da ex uomo della ‘ndrangheta, collabora con lo Stato da 13 anni. Dal 2006 ad oggi ha permesso che centinaia di mafiosi finissero dietro le sbarre, collaborando attivamente con circa 14 procure diverse. La sua ultima testimonianza, in ordine di tempo, risale ad appena 15 giorni fa. Una scelta di civiltà, la sua, che però costa un prezzo altissimo ogni giorno. Trascinati in questa vita-non vita ci finisce anche ogni componente della famiglia. «Facciamo i conti con l’emarginazione più totale, i nostri figli per primi, che a volte non riescono neppure ad andare a scuola. Un disagio dietro l’altro, spostamenti continui, mancanza di cure, di comodità, di tutto. Specie di normalità – racconta a MeridioNews -. Siamo in trincea, noi il sangue lo vediamo schizzare ogni giorno, e non è una metafora. Qualcuno che oggi rischia forse meno si affanna tanto a gridare “al lupo al lupo”, ma c’è chi quel lupo per fortuna non lo vedrà mai nemmeno col cannocchiale, mentre quelli come noi ci devono convivere tutti i giorni». Quelli come loro sono le vittime senza categoria, senza volto, senza etichetta. Anzi, forse una, di etichetta, ce l’hanno. Sta lì incollata, e staccarla e buttarla via è meno semplice di quel che sembra: infami. «Mafiosi siamo stati e mafiosi restiamo. Per molti, purtroppo, pensarla così è la prassi». Un riflesso automatico, che arriva tanto dalle organizzazioni criminali, rinnegate e tradite, quanto dalla società civile. E questo mette in ginocchio anche la famiglia di un collaboratore, additata allo stesso modo.

Un dito puntato che li rende inevitabilmente molto più soli. E invisibili. È per questo che a Luigi viene un’idea: mettere in piedi una rete che permetta a tutti quelli che come lui denunciano le storture della vita di (ri)conoscersi e aiutarsi reciprocamente. Una realtà aperta a chiunque subisca violenze e soprusi, dai collaboratori e i testimoni di giustizia alle donne vittime di un partner violento. È con questo spirito che nasce un comitato diventato oggi associazione, quella dei Sostenitori dei collaboratori e testimoni di giustizia. «Una finestra sul mondo, un simbolo, un grido silenzioso», nella mente di Luigi. Che sceglie Palermo come sede unica. Apre tutti i giorni le sue porte infatti proprio lì, in via Serpotta, ad appena un chilometro di distanza dal palazzo di giustizia. La presidente è Margherita Landa, una donna che, insieme al marito Filippo Misuraca, tesoriere dell’associazione, ha denunciato sei anni fa vessazioni e intimidazioni di Cosa nostra. Finendo, malgrado gli arresti e le condanne, per vivere in uno stato di costante terrore per via delle minacce mai cessate della mafia e dell’incapacità delle istituzioni di tutelarli e garantire loro una vita normale. A mandare avanti l’associazione c’è anche l’ex storica presidente Valeria Sgarlata e il vice Mario Spezia, un ingegnere di Verona. Mentre il segretario è il testimone di giustizia Giovanni Sollazzo. E il giornalista della redazione del Tgr Rai del Friuli Venezia Giulia Giovanni Taormina, che le buste coi proiettili ormai non le conta nemmeno più, è anche lui tesoriere del gruppo.

Persone dal bagaglio differente, ma con un filo conduttore comune: hanno tutti denunciato. Molti di loro, però, sono «quei denuncianti che stranamente non diventano niente. Quelli che vengono lasciati allo sbando, che sembra quasi debbano vergognarsi più di un mafioso». Cercano di combattere, tra le tante cose, la solitudine. «Abbiamo una voce ora – dice Luigi, alludendo all’associazione -, però siamo ancora oggi soltanto noi che ci aiutiamo a vicenda». Ma come si fa a sopravvivere a una vita come la loro? Una vita sospesa, messa in standby ormai anni fa. «Non c’è una ricetta. In 13 anni di esperienza, di storie ne ho sentite tante. Come quella di Lea Garofalo, la testimone di giustizia che hanno tentato di rapire a maggio del 2009 e che poi, sei mesi dopo, sono riusciti a uccidere. Anni prima il mostro del Circeo uccide la moglie e la figlioletta del pentito leccese Maiorano. Fino al piccolo Di Matteo. Siamo l’unica categoria in cui ammazzano anche i famigliari. E l’unica lasciata completamente senza protezione. Chiediamo – continua Luigi – sicurezza soprattutto per i nostri figli. La nostra situazione è devastante, atroce». Per questo l’associazione di Palermo si occupa davvero di tutti, «compresi testimoni e imprenditori di serie b, serie c, serie d». E punta a rendere nota o quantomeno visibile e conoscibile la situazione di emarginazione e isolamento che affrontano queste persone da quando hanno deciso di denunciare.

«La scorta? Cos’è? Non ce l’ho e nemmeno la voglio. Il sito protetto? Esiste solo sulla carta, di segreto e di protetto in realtà c’è ben poco. I miei figli, che in teoria sono nel programma di protezione, vanno tutti i giorni a scuola col loro vero nome, quanto ci vuole a rintracciarli? Qualcuno dei denuncianti ottiene qualcosa di più, non lo nego – osserva -. Ma noi no, che mi dovrei guardare da migliaia di ‘ndranghetisti. Oggi sappiamo che la ‘ndrangheta è la mafia più potente ma io non ho nessun livello di protezione». Eppure, non ruotano affatto attorno a questo punto, le sue richieste. «Chiedo da 13 anni un vero cambio di generalità, per me e per la mia famiglia, e un reinserimento socio-lavorativo. E in queste condizioni non ci siamo solo noi. Questo mondo è infinito e invisibile, e piange lacrime di sangue. I dati parlano di circa 1200 collaboratori, tradotto significa 1200 famiglie, quindi in media 2400 bambini, figli. Un mondo insomma di almeno seimila persone, che stanno dando il sangue per sostenere la scelta fatta dai propri mariti, padri, fratelli, figli. E questi sono solo i dati ufficiali. Ci sono ovviamente anche quelli non ufficiali». Secondo Luigi si parla di almeno di 15mila persone dagli anni ’90 ad oggi. Un numero che potrebbe anche essere molto più alto. Ma dove sono oggi tutte queste persone? «Molte di loro sono persone che muoiono ammazzate perché, scaduti i termini e buttati fuori dal programma, tornano nella loro località, a casa loro. L’80 per cento dei denuncianti non ce la fa, tra chi viene ucciso, chi torna nell’abisso della droga per via della depressione, o nel giro della prostituzione, c’è poi chi finisce in galera perché torna a commettere crimini».

Da qui, anche, l’importanza di un’associazione come quella di Palermo. «Sto notando che ci stiamo ormai abituando alle mafie, che ci stiamo abituando al malaffare, sembra quasi che non ci tocchi, che non ci preoccupi – osserva Luigi -. A fianco dell’associazione ci bastano poche persone ma buone, possiamo crescere. Oggi in Italia un denunciante è visto peggio di un mafioso, è incredibile. Sembrerà strano, banale, ma sicuramente la denuncia resta importantissima. Però non riesco più a biasimare nessuno, l’imprenditore o il cittadino che non denuncia, perché quello diventa l’inizio della fine, perché scompari per chiunque, scompare la tua vita, che si ferma. Con questa associazione vorremmo sostenere questo strumento, stare vicino a quelle persone che magari sono dure di testa e non vogliono rinunciare, vogliono denunciare, stando loro vicini. Perché spesso è anche la solitudine che uccide un denunciante». Complice anche un’antimafia che oggi, in casi estremi, si è addirittura trasformata secondo lui in mafia a sua volta.

«Spesso penso che questo Paese non abbia più speranze. Ma noi vogliamo provare a fare un’antimafia diversa – spiega -. Non siamo qui in cerca di voto, noi siamo delle persone serie e davvero vogliamo fare qualcosa di diverso. Ma anche noi stessi abbiamo paura di noi, perché tante volte abbiamo sentito discorsi di cambiamento, di qualcosa di nuovo, rimanendo poi fregati. Noi però ci crediamo e spero che sempre più gente si aggreghi a noi, che ci provi almeno. Io amo questo paese, lo amo moltissimo. Sono stato un criminale, un delinquente, è vero e accetto tutto, però oggi sono un uomo diverso. I miei figli appartengono a questa società quindi a maggior ragione voglio combattere per questa società e sono pronto per questo paese, non è più facile per me essere qua. I pericoli che corro, io insieme alla mia famiglia tutta, sono reali purtroppo. Lo capisco che la mafia non tutti la percepiscono. Abbiamo avuto un’antimafia statica, che ci ha abituato sempre alle stesse cose, Falcone, Borsellino, le stragi. Io, che abito un po’ più al Nord, mi affaccio dal balcone e non vedo magistrati che saltano in aria, quindi la mafia non c’è? Sbagliato. La mafia dobbiamo farla vedere davvero nella sua pericolosità. Anche se è molto difficile da vedere».

Cos’è la mafia? Cos’è la ‘ndrangheta? E la corruzione? «Un modo illecito di vivere la vita che inquina l’economia, la democrazia, la libertà, la politica, le istituzioni, inquina tutto il nostro futuro. È ciò che rende una società marcia, disonesta. “Si va bene, ma io c’ho il posto di lavoro, comunque sto bene”, penserà qualcuno, ma dobbiamo pensare ai nostri figli e ai figli dei nostri figli. Non credo ci sia bisogno di uno scienziato per capire cosa sia la mafia, eppure ci sono argomenti di cui non si parla. Come della piaga della droga: abbiamo decine di figli nostri nelle comunità o di figli morti per overdose, figli nostri. Pensiamo che questa cosa non ci tocchi, ma ci sbagliamo, può toccarci. Tutto questo l’ha provocato la mafia, la corruzione, queste sono le cose semplici da capire e da cui andare avanti – sostiene -. Se le mafie sono organizzazioni potenti è perché ci sono delle assenze nelle istituzioni, nella società civile. Noi da questa parte invece abbiamo davvero strumenti e carte giuste per aiutare i più deboli, abbiamo una delle carte costituzionali tra le più belle al mondo, perché non dobbiamo riuscirci?».

Silvia Buffa

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