Quarant’anni di Fronte nazionale siciliano «Indipendenza significa valorizzare l’isola»

«L’indipendenza moderna non significa separatezza. Ma il diritto della Sicilia di abbracciare altri popoli e cooperare con l’Europa e il Mediterraneo, dai quali ci separano gli schermi dei partiti e le combriccole». Niente monete popolari né battaglie per l’insegnamento della lingua sicula nelle scuole. E’ questa la posizione del Fronte nazionale siciliano, il movimento indipendentista più antico dell’isola. Tirato per la giacchetta dai Forconi che lo vorrebbero uno dei suoi principali interlocutori in vista delle prossime elezioni regionali di ottobre. Insieme a Forza Nuova e al movimento Per il bene comune. Una vicinanza smentita dallo stesso segretario del Fns Pippo Scianò, 72 anni, per 38 funzionario della Regione siciliana oggi in pensione: «Siamo interessati ai Forconi come fenomeno politico e sociale, ma senza alcuna alleanza, almeno al momento», chiarisce. Soprattutto a causa della presenza di Forza nuova. «Noi vogliamo l’indipendenza della Sicilia – spiega – Come possiamo essere interessati a stare insieme a una partito nazionalista?».

Il Fns nasce negli anni ’60 dalle ceneri del movimento indipendentista siciliano (Mis), fondato nel 1943. «Allora l’80 per cento della popolazione siciliana era indipendentista – spiega Scianò – Ma nel ’46, alla concessione dello statuto autonomistico, ci fu un crollo. La gente pensava che l’autonomia risolvesse tutti i problemi». Il Mis passò da nove deputati all’assemblea regionale siciliana nel ’47 a nessuno a fine legislatura nel ’51. «C’era poi la necessità di un aggiornamento, di un indipendentismo moderno che affrontasse nuove tematiche, come la fine della guerra, la miseria, la lotta armata, la mafia». La sigla del Mis era ormai svuotata di contenuto politico: «Era rimasta in mano a Ciccio Mazza, comunista e indipendentista – racconta Scianò – Cameriere in un locale di Catania, in via Etnea. Un posto dove si andava a giocare a flipper e a biliardino». Ma dove non si faceva politica. Ed è proprio nel capoluogo etneo che nasce il nuovo fronte – «perché c’era il nucleo più numeroso di indipendentisti» – la cui sede operativa viene poi trasferita a Palermo. «Sempre con un taglio progressista e pacifista», sottolinea Scianò.

Il nemico: l’alienazione culturale della Sicilia. «Ancora oggi applichiamo metodi e cultura mafiosi – spiega il segretario – La politica della lottizzazione, del clientelismo, del voto di scambio. Così non si può andare avanti». Una sorta di feudalesimo moderno, che vede i cittadini siciliani schiavi della politica. A sua volta dipendente dal governo nazionale. «Serve innanzitutto una rivoluzione culturale – continua – E creare le condizioni per una vera produttività che rendano la gente un po’ più libera dal bisogno immediato». Per farlo, niente trucchi o azioni clamorose. Basterebbe, secondo Scianò, essere consapevoli delle specificità dell’isola e applicare norme e procedure burocratiche adeguate. Un esempio? «Abbiamo un patrimonio turistico di grande interesse anche per altri popoli: bizantini, musulmani, ebrei – spiega – Eppure non vengono attuate le giuste connessioni per attrarre i turisti». Impossibile vendere la Sicilia come fosse la Svezia, insomma: ogni luogo ha la sua identità. «Scopiazziamo dagli altri e lo facciamo pure male – spiega – La Sicilia così non è la Sicilia, ma solo un serbatoio di voti». Una riappropriazione culturale valida per tutti i campi, compresa la lotta alla criminalità organizzata. Che prospera «perché abbiamo un corpo legislativo generale adatto per altre realtà. La lotta alla mafia qui non si fa solo con il codice di procedura penale – sottolinea Scianò – Ma servono metodi elettorali diversi e una riforma burocratica».

Scoperta dell’identità che poco – o nulla – ha a che vedere con le proposte che ultimamente giungono da più parti. Istituire una moneta popolare e comunale? «Mi sembra una sciocchezza – sorride Scianò – I Comuni non sanno gestire altri settori più semplici, figuriamoci se li mettiamo a fare i banchieri». Insegnare nelle scuole la lingua e la storia siciliane? «Ma quella vera, non quella che hanno inventato in Piemonte per noi». Non quella che racconta l’unità d’Italia come una marcia trionfale ma «come una conquista coloniale». Una storia talmente radicata che, secondo Scianò, anche i siciliani hanno finito per crederci. «Quello che Bossi dice per offenderci è considerato vero dal cittadino comune come dal politico siciliano, che pensa di campare sulle spalle del Nord – dice – Senza andare troppo lontano, i politici si vantavano di aver fatto costruire sulle nostre spiagge i petrolchimici che non volevano nel resto d’Italia. Fanno un vanto del tradimento e della svendita della Sicilia».

Operazione che, secondo il Fronte nazionale siciliano, vorrebbero ripetere con la costruzione del ponte sullo stretto di Messina. «Una manovra antisiciliana che serve a sancire la perdita d’identità geografica della regione. La Sicilia non sarebbe più un’isola. Diventerebbe il sottosuolo dello stivale. Come se poi il prodotto che arriva da Berlino a Tunisi ci andasse a nuoto, perché il ponte a un certo punto finisce». Senza considerare i motivi di interesse ambientale e di rapporto convenienza-spesa. Nemmeno l’attuazione dello statuto siciliano, spesso invocato dagli autonomisti, secondo Scianò sarebbe una soluzione. «Si tratta di un patto violato tra il popolo siciliano e il governo italiano. Continuamente tradito dalla stessa classe politica dell’isola – conclude – Dopo 60 anni non può essere rimesso in vita così».

 

[Foto di Chiara Marra]

Claudia Campese

Giornalista Professionista dal 2011.

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