Volto preoccupato e occhi lucidi. Quando Maria (nome di fantasia, ndr) sale sul banco dei testimoni di un’aula del palazzo di giustizia di Catania ha solo un compito: riportare i suoi ricordi al 2012 quando, da impiegata di una pizzeria, avrebbe frequentato alcuni tra i club privè più in voga della provincia etnea. Un particolare fondamentale perché dietro quei locali gestiti da associazioni culturali si sarebbe celato un mega business legato alla prostituzione e allo scambio di coppia. La prova sull’esistenza di una vera e propria associazione a delinquere sarebbe nelle carte del processo che si è appena aperto con una ventina di imputati. Di questo ne sono certi i magistrati della procura che hanno messo sotto la lente d’ingrandimento i locali Villa Giulia, a Viagrande, Pantheon, a Pedara, Harmony a Misterbianco e Venere della notte a Trecastagni. In quelle carte vengono messi nero su bianco nomi e cognomi di chi avrebbe fatto parte di una vera e propria catena di montaggio del sesso a pagamento. Maria però davanti giudici e avvocati giura di non ricordare più nulla del suo passato. Non si ricorda nemmeno quando, chiamata dalla polizia giudiziaria, nel 2012 mise a verbale le sue frequentazioni all’interno dei locali.
Dovevo intrattenere i clienti senza andare oltre. In realtà mi sono prostituita
«Non ricordo nulla», sono le prime parole. Nessuno sforzo di memoria cambia lo spartito e il ritornello pronunciato in aula per decine di minuti è sempre identico. Quando la presidente Maria Pia Urso la ammonisce di essere sotto giuramento, Maria appare sempre più confusa e le parole continuano a essere pronunciate con il contagocce. «Lei soffre di turbe psichiche?» chiede la giudice. «Sì, non ricordo più nulla», risponde la testimone. Un silenzio che si fa sempre più tedioso, nonostante le venga data la possibilità di proseguire l’udienza a porte chiuse. Ma la risposta è un no soltanto accennato con il movimento della testa. Dal banco dell’accusa si passa alla lettura di due verbali, risalenti al 2012, in cui la donna avrebbe raccontato di presunti incontri. «Non ricordo nulla di queste cose e non conosco queste persone». L’unica cosa che viene constatata come propria è la firma in fondo ai documenti. La giudice, a questo punto, inizia a scandagliare alcuni particolari della vita privata della testimone: «Dove lavora adesso?», «Come si è recata oggi in tribunale?» e ancora «Fa uso di psicofarmaci?». «Sono stata male e ho avuto una forte depressione e oggi mi sono recata qui da sola, con la mia macchina», sono le uniche parole. L’epilogo della vicenda arriva poco dopo con gli atti della testimonianza trasmessi in procura con l’ipotesi che quei continui «non ricordo» in realtà nascondano dell’altro. «Bisognerà valutare questa reticenza e l’eventuale falsa testimonianza – annuncia la presidente al microfono nel silenzio dell’aula – Riteniamo che la testimone sia stata minacciata o pagata per non dire nulla». Ma i colpi di scena devono ancora arrivare.
Nuovi elementi vengono forniti dalla seconda persona chiamata dell’accusa. Michela, 35enne esperta di grafica con un passato, durato qualche mese, da prostituta. Il suo è un nome di fantasia ma reali, almeno a suo dire, sono le ricostruzioni che fornisce. A partire dalla figura di Nicolò Santonocito, coinvolto nel blitz della polizia nel 2012 e vecchia conoscenza delle forze dell’ordine. «Ero stata chiamata come figurante di sala nel locale Harmony di Misterbianco», racconta la donna. L’obiettivo era «intrattenere il cliente ma senza andare oltre», precisa. In realtà in via Madonna Ammalati si sarebbe fatto altro, nonostante a gestire il locale fosse una associazione culturale. «Ma di culturale non c’era niente in quel posto – aggiunge Michela -. Mi dissero che dovevo andare a letto con i clienti». A fare da ponte per arrivare a una richiesta simile sarebbe stata la prima testimone sentita in aula, la stessa dei tanti non ricordo. «Ha avuto il ruolo di aggancio, mi disse che al massimo avrei ballato sul cubo ma lei già si prostituiva all’Harmony».
In questo modo la 35enne, che durante quel periodo aveva scelto il nome d’arte Giulia, avrebbe iniziato a prostituirsi. «La retribuzione che mi veniva data per ogni cliente era di 30 euro ma non mi pagavano direttamente loro». Particolare che farebbe presumere l’esistenza di giri di denaro più consistenti. La testimone è un fiume in piena e svela ulteriori retroscena su una presunta visita al Giardino di Giulia. «Era come Misterbianco: un bordello. Quella sera andai con due clienti e basta, a pagarmi fu Nicolò. Chi entrava in quel posto lo faceva solo per un motivo». In mezzo a questi racconti c’è anche il sistema con il quale sarebbero stati gestiti gli ingressi. «I singoli pagavano 100 euro mentre le coppie 50». Di fatto, stando anche alla ricostruzione degli inquirenti, nei locali ci sarebbero stati più appartenenti alla prima categoria rispetto alla seconda. «Dentro le finte coppie si occupavano di adescare gli uomini soli», prosegue.
Il racconto dell’ex prostituta converge anche sul rapporto con la prima persona chiamata a rispondere alle domande di accusa e avvocati. Le due in aula si incrociano solo per pochi secondi. «Dopo il sequestro dei locali mi contattò per parlare di quanto era accaduto, erano passate due settimane dagli arresti. Ci siamo viste ma volevo chiudere tutti i contatti e non ci siamo più incontrate e oggi, dopo anni, non ci siamo nemmeno salutate. Lei organizzava festini anche fuori dal club». L’ultima domanda, prima di essere congedata, è della presidente della corte: «Ha visto se oggi la signora era accompagnata da qualcuno?», «Sì – risponde -, con lei c’era un uomo, ma non lo conosco».
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