Proposte di lavoro o nuove forme di schiavismo? «Chi accetta non è bisognoso, ma un complice»

«Schiavi 2.0». Sono quelli che oggi si accollano proposte di lavoro al limite dello schiavismo. Le migliori arrivano spesso da chi gestisce piccole attività, dai bar ai panifici, o da quei privati che cercano qualcuno che faccia da badante – nella migliore delle ipotesi -, a un proprio caro. Tante ore, a volte anche più di dieci, per paghe davvero misere. Alle quali molti reagiscono con indignazione, mentre altri si trovano costretti ad accettare. I nuovi schiavi, appunto, sono proprio loro. «Cerchiamo una banconista anche prima esperienza per banco pane che sia responsabile, con tanta voglia di lavorare e imparare – scriveva ad esempio in un annuncio di qualche settimana fa il titolare di una panetteria di Palermo -. L’orario di lavoro è dalle 8 alle 14.30, due ore di pausa, poi si viene alle 16.30 fino alle 20.45, la domenica siamo chiusi. Zona corso dei Mille. Disponibilità immediata, pagamento mensile 400 euro, imparando e crescendo nel lavoro la mensilità può salire».

Tradotto, significa che tra le sei ore e mezza della mattina e le restanti quattro e un quarto per arrivare a chiusura, chi accetta dovrà accollarsi quasi 11 ore di lavoro al giorno, circa 66 a settimana. A quel prezzo, tirando le somme fino a fine mese, equivale ad essere pagati intorno all’euro e cinquanta all’ora. Un annuncio candidamente pubblicato alcune settimane fa sulla pagina Subito.it alla ricerca della banconista perfetta. «Ma nessuno controlla? Nessuno denuncia?», si chiede un utente sui social, dove intanto l’allettante offerta di lavoro è rimbalzata, raccogliendo appunto indignazione e sgomento. Malgrado non sia certo il solo annuncio di questo tenore. «Mi sono venuti i brividi a leggerlo», commenta ancora qualcuno. «Mia nipote me ne racconta di cotte e di crude, dato che è in cerca di lavoro. Richieste assurde, orari improponibili e stessa paga. Non è bello che chi non può andare altrove debba vivere in schiavitù».

Ma c’è proprio chi, davanti a condizioni come quelle proposte dal titolare in cerca di una banconista per vendere il pane, non giustifica alcuna condizione, alcuna condiscendenza. «Non mi si dica che è giusto accettare, perché per più di 10 ore al giorno e sei giorni su sette non è avere bisogno ma mancanza di dignità. A 400 euro si può essere schiavi per molte meno ore. Sino a quando si concede questo siamo complici e non bisognosi», commenta un altro utente. Chi dovrebbe vigilare su quello che sta diventando sempre più un fenomeno sono l’Ispettorato del lavoro e l’Inps, sono loro i soggetti preposti al controllo. Ma se ci sono degli enti preposti per farlo, come si spiega il proliferare di annunci in cerca di schiavi moderni? «In parte controllano, ma i numeri dei funzionari a disposizione sono davvero scarni, parliamo di circa quattro agenti per tutta la provincia di Palermo. Numeri talmente irrisori che non si riesce a seguire al meglio ogni settore, come questo della panificazione ad esempio», spiega Dario Fazzese, segretario Flai Cgil Palermo.

«È paradossale che un datore di lavoro che voglia fare una proposta di questa natura la faccia pubblicamente, che sia sui social o su piattaforme di annunci – riflette il sindacalista -. Che questo avvenga è un fatto, ma che addirittura si arrivi a questo dà la sensazione che si sia perso il senso del limite». E che, sotto sotto, certa gente si sia convinta che regni un clima quasi di impunità o, peggio ancora, qualcuno magari potrebbe non comprendere neppure di stare facendo qualcosa di sbagliato. «Essendo una terra fortemente caratterizzata dalla disoccupazione questo spinge verso il basso i salari. Ovviamente i contratti in qualche modo, quelli nazionali ma anche quelli integrativi, riescono a tenere una certa barra sulla questione salariale – spiega Fazzese -, però è chiaro che in quelle situazioni si sfugge alla questione salariale. Prima era solo il lavoro nero, oggi quello stesso lavoro nero ce lo ritroviamo pure su Facebook in una situazione paradossale». Si fa leva soprattutto sulla disperazione di molta gente, che è disposta ad accettare ogni tipo di condizione. In un meccanismo che alimenta due danni in due direzioni distinte: «Si danneggia ovviamente il lavoratore sottopagato per degli orari di lavoro che vanno al di là degli orari contrattuali e dello straordinario, con una situazione previdenziale misera perché non ci sono mai neanche i contributi. Ma si fa anche una concorrenza sleale alle aziende che invece rispettano le regole, che non riescono più a essere competitive».

La Flai Cgil, focalizzandosi sul settore agricolo, sta cercando di costruire una sorta di marchio che certifichi quei prodotti per cui c’è rispetto dei contratti di lavoro, un po’ come ha fatto la Coop o circuiti come quello di Libera. «Vorremmo proporre protocolli di questo tipo a Coldiretti, Confagricoltura. Sul settore della panificazione o dell’artigianato però ammetto che siamo ancora un po’ indietro – rivela -. Anche perché sono spesso soggetti molto poco sindacalizzati: spesso in un panificio, ad esempio, c’è il proprietario, poi sua moglie, il figlio e poi un altro dipendente, non è molto semplice sindacalizzarli, li incrociamo spesso quando avviene il licenziamento. Insomma, anche costruire una campagna su questo è complesso». Un’idea potrebbe essere quella di fare in modo che la Camera di commercio diventi un soggetto interlocutore per creare una sorta di certificazione, «non si risolve del tutto, ma una forma di premialità alle aziende che rispettano i contratti può essere in qualche modo un importante incentivo al rispetto delle regole». Anche perché questo rischia di diventare davvero un fenomeno. Non a caso a breve la Cgil lancerà una campagna sul tema del lavoro nero, un’operazione serrata di sindacato di strada all’apertura dei panifici, alle 5 del mattino, per informare i lavoratori in maniera capillare.

Silvia Buffa

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