«Dopo avere ascoltato questa reiterazione di targhe e di orari su fatti diciamo incontestati, volevo solo precisare qualcosa, giusto perché si capisse qualcosa di più “contenutistico”». È con queste parole che Silvana Saguto torna a rompere il silenzio, rilasciando alcune dichiarazioni spontanee di fronte ai giudici nisseni. Ne sente quasi l’esigenza, dopo aver ascoltato per quasi un’ora e mezza alcuni finanzieri raccontare dei pedinamenti a Carmelo Provenzano, amministratore giudiziario che portava a spese proprie la frutta all’ex presidente delle Misure di prevenzione di Palermo. E chiarisce subito che lui, come anche l’avvocato Cappellano Seminara, per la natura del loro lavoro e dei discorsi che quotidianamente affrontavano, era una di quelle persone che vedeva «praticamente ogni giorno». «Non sono il tipo che riesce a ricordare con facilità le date, avendo questo distacco tra le intercettazioni e il perché quel giorno è venuto Provenzano da me, io non mi ricordo, non riesco ad averlo – spiega l’ex giudice – Se mi dicono che è venuto sarà così, sicuramente per parlare di lavoro o per prendere un caffè magari e parlare con mio figlio. Sicuramente cose da dire ne avevamo tante».
«Ma io vorrei parlare della frutta», dice a questo punto lei. «Viene visto come atto corruttivo nei miei confronti, come pagamento di non so quale atto contrario ai doveri del mio ufficio, perché non è specificato, l’averlo nominato come coadiutore immagino – dice, riferendosi proprio a Provenzano – e mi viene difficile pensarlo perché è un atto discrezionale stabilito da un tribunale che è fatto da tre persone, che sia un atto corruttivo nominare un coadiutore è già difficile da capire, ma che lo sia il pagamento con una cassetta di frutta del valore di sette euro…». Quello che Saguto insomma si domanda davanti ai giudici è come possa rappresentare un episodio di corruzione l’aver nominato come coadiutore Provenzano dopo che questo, in cambio, le aveva procurato alcune cassette di frutta. Può essere, questo, il prezzo di una corruzione nel senso stretto del suo significato?
«Sette euro sono comunque una cifra da rispettare, chiaro. Ma questa era un’iniziativa di Provenzano, siccome aveva il mercato, c’erano a volte delle primizie, io magari gli dicevo che mi servivano, e in effetti una volta credo di avergliele chieste io ma non per non pagarle, e lui mi diceva “ma mi dai tre euro, mi dai quattro euro? è come se ti avessi offerto il caffè, mi fai ridere” – racconta l’ex giudice -. So che i finanzieri sono andati anche da Spinnato a chiedere se io pagavo, anche se questa cosa in realtà non mi è stata contestata, forse perché non ho nominato il proprietario coadiutore in cambio di un caffè. Parliamo di cose che credo sia svilente inserire nell’ambito di un procedimento penale per corruzione, quando io utilizzavo amministratori che mi dovevano rendere conto di somme di miliardi». Cifre stabilite, in ogni caso, dalla guardia di finanza e dalla Dia. «Caselli mi ha indicata come il più grande imprenditore di Sicilia facendomi un grande danno, perché mi ha posto sotto gli occhi dell’opinione pubblica come se fosse un mio piacere amministrare molte cose, invece credo fosse un mio dovere amministrare quelle che gli organi inquirenti mi portavano per il sequestro».
E rincara la dose, rivolgendosi direttamente alla corte: «Voi pensate che se io mi volevo fare corrompere mi prendevo le fragole? – domanda -. C’era addirittura un melone, da quello che ho sentito qui in aula, e non lo ricordavo! Un melone ha certo un valore forse maggiore. Non so invece quanto costa pagare un finanziere per andare in giro con la macchina per guardare se è vero o non è vero che mi portano la frutta, e poi andavano dal prefetto (Francesca Cannizzo…ndr): lei non è imputata perché poi ha invitato i ragazzi a mangiare la parmigiana di melanzane? Dico sempre che questo processo pecca per eccesso o per difetto, perché alcuni comportamenti a me vengono contestati e ad altri no». La frutta può essere considerata il prezzo della corruzione? È lo stesso dilemma che la stessa magistrata si pone rispetto alla tesi di laurea realizzata da suo figlio maggiore, Emanuele Caramma, coinvolto anche lui nel processo, a cui ha lavorato insieme a Carmelo Provenzano. «La tesi di mio figlio è sulle misure di prevenzione, su tre casi che avevo trattato io, se qualcuno doveva aiutare mio figlio quella potevo essere solo io, ma tutto poteva essere tranne che un prezzo di corruzione – spiega ancora lei -. Io ho insegnato nelle università, se prendo i quaderni che ho a casa e copio le prime sessanta pagina vengono di più di quelle che ha scritto Emanuele nella tesi».
Non solo denaro, insomma. Nella ricostruzione messa in piedi dall’accusa, per Provenzano il prezzo della corruzione sarebbe stata anche la particolare attenzione nel percorso pre e post laurea del ragazzo, che trasferisce nell’ateneo dell’entroterra siculo il proprio piano di studi dietro suggerimento dell’uomo. «Sono ridicoli anche 20mila euro a fronte di quello che io potevo chiedere, ma lasciamo perdere. Io ne ho sentito solo parlare di questi soldi, ma nessuno li ha mai visti, se ne parla perché pare che qualcuno li abbia dati a qualcun altro, non si capisce perché questa persona me li avrebbe dovuti dare, ma ci sarà il momento di dirlo, perché io aspetto di vedere quando e come si dirà che io ho avuto questi soldi – conclude -. Ma parliamo di frutta, di tesi, di cose che non hanno un valore. E c’è un processo, ci sono stati finanzieri a spasso, allertati per seguire una macchina tutto il giorno. Resto veramente meravigliata che si possa fare». Ma a interromperla a questo punto è il presidente Andrea Catalano, che la invita a tenere per sé le considerazioni personali, mettendo di fatto un punto alle sue dichiarazioni. «Mi scuso, ma lei capisce che è una cosa che mi dà una sofferenza particolare per cui a volte vado al di là di quello che è opportuno nel momento».
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