Processo Fragalà, sul banco la figlia del penalista «Ho saputo che lo chiamavano l’avvocato sbirro»

«Ho sentito un rumore alle mie spalle, da lontano. Un rumore forte e sordo, come di una botta, di un legno. Mi sono girata e ho visto una persona chinata che colpiva più volte e con violenza un’altra persona stesa per terra». È questa la drammatica ricostruzione fatta davanti alla prima sezione della Corte d’Assise da una testimone che la sera del 23 febbraio 2010 assiste all’aggressione contro l’avvocato Enzo Fragalà, morto tre giorni dopo in ospedale. «Vedi anche tu la stessa scena che vedo io?», chiede sconvolta a un ragazzo che si trova vicino a lei. Sono circa le 20.30. È un attimo, si volta di nuovo e l’aggressore non c’è già più. Di lui ricorda gli abiti scuri e il casco indosso, brandisce un oggetto ma non riesce a capire di cosa si tratta.

È buio e il faretto montato sulla vetrina di Mail Boxes le limita la visuale. Quella sera lei sta uscendo dal cancelletto del garage dove è solita posteggiare l’auto. È su via Turrisi, attraversa in direzione dei portici per avviarsi verso casa, proprio a due passi sulla stessa via. Poi quel rumore, la scena, il panico. Lì per lì pensa a una coppia di fidanzati che litiga. Nessun grido, però. Solo lo scorrere fluido e lento delle macchine. Si avvicina subito alla persona rimasta a terra, non lo conosce. Gli dice di restare tranquillo e avvisa i soccorsi: servono tre chiamate al 118, prima che arrivi qualcuno. Decide di salire a casa per prendere qualcosa con cui tamponare il sangue e le ferite del penalista rimasto a terra. Incontra il padre, al quale racconta l’accaduto e che decide di scendere in strada insieme a lei per unirsi ai soccorsi. «Era sporco di sangue, cercava di alzarsi mettendo le mani sul muro – continua – Diceva di voler andare al bagno, ma noi cercavamo di non farlo muovere, non sapevamo se avesse qualcosa di rotto. È rimasto fra le nostre braccia, così».

Mentre parla la testimone, i nervi in aula sembrano tesi, soprattutto dentro l’acquario, la zona dell’aula dove i detenuti coinvolti nel processo assistono all’udienza. Ce n’è uno che fa su e giù freneticamente con la gamba, lo fa senza sosta per quasi tre ore. Mentre un altro sbotta durante la testimonianza della donna, e il presidente Sergio Gulotta lo riprende. A darle il cambio sul banco è l’avvocato Loredana Lo Cascio, all’epoca collaboratrice dello studio del penalista. «Dopo aver appreso l’accaduto, ricordo che tutti noi colleghi dello studio eravamo terrorizzati, avevamo paura, non sapevamo cosa poteva aver innescato un’aggressione così brutale – spiega – Aveva una clientela abbastanza variegata e nello svolgimento della sua attività professionale era sempre sereno, faceva questo lavoro con grande passione». Nessuna preoccupazione, a sentire i ricordi della collega, relativa a questioni di lavoro, apparentemente nulla lo impensieriva.

«Ricordo che nell’ambiente carcerario lui era appellato come lo sbirro – continua Lo Cascio – Per questa sua tendenza, in situazioni di evidenza probatoria, ad assumere un atteggiamento di apertura con l’autorità giudiziaria». Una definizione che conosce bene anche Marzia Fragalà, figlia del penalista, anche lei sentita oggi in aula: «Dopo la sua morte ho preso io le redini, sentivo di dover essere presente. E c’è un episodio che ricordo bene, quando ho sentito quell’appellativo per la prima volta», racconta, cacciando indietro le lacrime. La scena si svolge nella sala colloqui del carcere Pagliarelli, lei è andata a trovare Onofrio Prestigiacomo, un cliente del padre. «Mi disse che in carcere mio padre era chiamato l’avvocato sbirro e che per essersi rivolto a lui, gli altri detenuti lo sbeffeggiavano, subiva vessazioni e minacce, gli dicevano tutti che lo avrebbe indotto a parlare, che doveva cambiare avvocato difensore», fa una pausa, Marzia. Si ferma, per riprendere qualche secondo dopo.

«Seguivo mio padre professionalmente, lui mi coinvolgeva in tutto. Anche se in quel periodo non frequentavo lo studio assiduamente come prima, perché ero presa dai preparativi del mio matrimonio, che sarebbe stato a giugno – continua la figlia – Lui non ha partecipato al mio esame di abilitazione, non ha potuto…è stato a marzo 2010. Però c’era per quello di avvocato», aggiunge, finalmente sorridendo. Quella sera del 23 febbraio lei non c’è in studio. Il suo telefono è staccato, è al corso prematrimoniale. Suo padre lo rivede solo al Civico, già in Rianimazione. Non riuscirà più a parlare con lui. Durante la prossima udienza, fissata a novembre, saranno sentiti tutti gli altri testimoni oculari. 

Silvia Buffa

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