«Per anni Mario Ciancio, dal secondo piano del palazzo de La Sicilia, ha visto Catania e ha visto passare questori, prefetti, politici di ogni genere ma anche personaggi dalle fedine penali non raccomandabili. Si processa Ciancio molti anni dopo e viene scandagliata tutta la sua vita e le sue ricchezze. È bene che si sappia che questo uomo nasce in una famiglia ricca e certamente i suoi affari non hanno mai interferito con ambienti malavitosi». Inizia così la seconda parte dell’arringa difensiva nel processo all’editore, imprenditore ed ex direttore del quotidiano di viale Odorico da Pordenone. A prendere la parola, davanti il presidente Roberto Passalacqua, è stato l’avvocato Carmelo Peluso. Prima di lui, nell’udienza precedente, era toccato al legale Francesco Colotti che aveva scandagliato la linea editoriale del quotidiano e le dichiarazioni, e presunte contraddizioni, dei collaboratori di giustizia che hanno parlato di Ciancio.
«Qualcuno di loro ha detto “era nostro amico” ma questo non è sufficiente per tradurre la condotta in qualcosa di concreto», aggiunge Peluso analizzando i dettagli della configurazione del reato di concorso esterno in associazione mafiosa che viene contestato all’imprenditore 91enne. Stando alle accuse della procura di Catania l’imputato avrebbe dato un apporto a Cosa nostra e in particolare alla famiglia dei Santapaola-Ercolano attraverso uno serie di mega affari. Dalla costruzione del nuovo ospedale Garibaldi passando per i centri commerciali, tra cui Porte di Catania e il Sicily Outlet Village di Agira, in provincia di Enna. «Di questo procedimento nei confronti a Ciancio è bene ricordare che la procura aveva pure presentato richiesta di archiviazione ma il gip dispose nuove indagini e nello specifico sul triangolo affari-Ciancio e mafia – spiega Peluso – Successivamente è stato chiesto il rinvio a giudizio e si arrivò a una sentenza di non luogo a procedere ma poi venne cassata dalla Cassazione. Una sentenza che, nella prima metà, ci diceva che il concorso esterno in associazione mafiosa non esisteva. Per un centinaio di pagine successive, però, quella sentenza analizzò i dati di questo processo indicando come non ci fossero i presupposti per contestare l’apporto di Ciancio alla mafia. Senza la prima parte di quella sentenza oggi non saremmo qui».
Un passaggio è anche quello riguardante il processo davanti al tribunale Misure di prevenzione, iniziato con una confisca da 20 milioni di euro conservati in Svizzera. In primo grado venne disposto il sequestro, era 24 settembre 2018. Poi fu revocato nel 2020 con decreto della corte d’Appello e poi divenuto definitivo con l’inammissibilità del ricorso in Cassazione. «Questo processo poteva essere celebrato in abbreviato perché il dibattimento ha apportato poca roba. Il canovaccio principale era già contenuto nelle indagini preliminari», spiega Peluso. «Appello e Cassazione sono entrate nel merito analizzando le stesse cose che esaminerete voi», continua. L’avvocato conclude la propria arringa, dopo diverse ore, leggendo un passaggio finale del decreto della corte d’Appello: «“I politici passano mentre Mario Ciancio resta ad esercitare il proprio potere economico e sociale, non perché in ciò agevolato dalla mafia, ma perché il personaggio è così in grado di rapportarsi con qualsiasi esponente politico del periodo, di qualunque partito, per perseguire i suoi interessi economici, suo reale movente, sfruttando la sua rete di relazioni politiche di cui forse è, era, il principale detentore in Sicilia”. Io vi consegno – conclude Peluso – questa descrizione lapidaria perché possiate assolverlo perché il fatto non sussiste». La sentenza è prevista venerdì 17 novembre: «Contro ogni scaramanzia», conclude il presidente.
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