«Possibili infiltrazioni mafiose nelle associazioni antiracket» Il 2019 tra blitz, arresti e criticità con cui fare ancora i conti

Cosa nostra? Sempre lì, sempre viva, anche se la «strategia di martellamento» adottata dallo Stato, con blitz e operazioni antimafia che si danno il cambio a volte anche da un mese all’altro, e la vera e propria «decapitazione dei mandamenti» stanno portando a risultati in cui forse, alcuni, non speravano nemmeno più. È un’analisi assolutamente positiva quella elaborata dal presidente della corte d’appello del tribunale di Palermo Matteo Frasca, preparata in occasione dell’inaugurazione del nuovo anno giudiziario, che si sta celebrando questa mattina nell’aula magna della corte d’appello del palazzo di giustizia. Oltre al presidente, in rappresentanza del ministro della Giustizia partecipa il capo del Dap Francesco Basentini, mentre per il Csm è presente l’ex pm di Palermo Nino Di Matteo. Alla cerimonia assistono le massime autorità giudiziarie, come il procuratore generale Roberto Scarpinato, il procuratore della repubblica Francesco Lo Voi. Presenti in aula anche i vertici delle forze dell’ordine, il sindaco Leoluca Orlando e la prefetta di Palermo Antonella De Miro. 

Un’occasione, questa, che porta puntualmente a tirare le somme con l’anno appena salutato, facendo il bilancio di quanto fatto e di quanto ancora ci sia da fare. Il presidente Frasca lo fa nello spazio di 347 pagine, suddivise in otto parti. «Cosa nostra è radicata nel tessuto sociale di quasi tutti i territori siciliani da circa 160 anni. Ciò si traduce in un’efficace controllo del territorio che è il fondamentale punto di forza della stessa – spiega il presidente -. Muovendo dal controllo del territorio può stringere alleanze, più o meno episodiche, con soggetti e organismi eterogenei, spingendosi sino alle attività finanziarie più complesse. Proprio per questi motivi, nonostante la pressione crescente esercitata dallo Stato, si trova solamente in difficoltà (grave difficoltà in alcuni territori), ma non è stata ovviamente sradicata».

«Mentre – aggiunge subito – per altre organizzazioni, diverse da quelle storiche e prive del controllo del territorio, operanti in altre regioni è stata sufficiente una singola, anche se vasta, operazione per ottenere tale radicale risultato». I metodi con cui le organizzazioni mafiose mantengono il proprio controllo sul territorio sono sempre gli stessi: «L’utilizzo dell’intimidazione e della violenza, anche la più efferata, non costituisce un elemento accidentale o episodico, ma è un elemento costitutivo della sua struttura. Si potrebbe dire che è nel Dna di Cosa nostra». In alcuni momenti, come quello attuale, «per motivi tattici o strategici può limitare o escludere le condotte più violente – spiega il presidente Frasca -, ma deve essere chiaro che Cosa nostra, quando lo considera conveniente, torna ad uccidere. Basti sottolineare al riguardo che un mero cambiamento al vertice di un mandamento ha comportato l’esecuzione di due omicidi in pochi mesi». Cioè quelli avvenuti a Belmonte Mezzagno il 10 gennaio 2019 e l’8 maggio 2019: il primo a morire sotto i colpi dei killer è Vincenzo Greco, manovale di 36 anni ucciso a bordo del suo fuoristrada mentre sta percorrendo la strada provinciale che collega il paese a Santa Cristina Gela. Il secondo invece è Antonio Di Liberto, commercialista ucciso poco distante dalla sua abitazione.

Due cadaveri che potevano anche essere tre, se dall’ultimo agguato l’ennesima vittima designata, Giuseppe Benigno, non si fosse miracolosamente salvata grazie alla pistola puntata contro di lui che si inceppa e il suo tempismo nel fuggire con l’auto. Per finire poi, soltanto qualche mese dopo, dalla quasi tomba alle manette con l’accusa di associazione mafiosa. Tuttavia, a parte episodi brutali e violenti come questi rimasti per fortuna solo una parentesi, Cosa nostra non è certo più quella di una volta, sia in fatto di profilo sanguinario che in fatto di gerarchie e organizzazioni. «Emerge un rilevante ridimensionamento dell’importanza di mandamenti mafiosi “dominanti” nel periodo corleonese come, per l’appunto, quello di Corleone, nonché quelli di San Giuseppe Jato e Partinico. È quasi superfluo sottolineare – spiega ancora – che, se la linea “oligarchica e palermocentrica” avesse, alla fine, prevalso la pericolosità della Commissione provinciale di Cosa nostra sarebbe cresciuta esponenzialmente». Quella che si stava cercando di ricostituire in seguito alla morte di Totò Riina, che fino a quel momento era stato il capo indiscusso e indimenticato, se vogliamo, motivo per cui la Commissione non si riunirà mai più dopo il suo arresto nel ’93. Tuttavia, secondo il presidente Frasca «si può ragionevolmente escludere un’interferenza del noto latitante Matteo Messina Denaro nelle dinamiche associative dei mandamenti palermitani». Oltre a potersi spingere a dire che risulta ormai ampiamente superato quel contrasto che, negli anni ’80, aveva inaugurato una stagione di sangue che aveva portato all’ascesa dei corleonesi.

Adesso, piegati da quella strategia appunto «martellante» da parte di uno Stato che non concede alcuna tregua, non è più tempo di scontri interni. E vincenti e perdenti tornano a stringersi la mano e a stare dalla stessa parte, criminale ovviamente. Alcune operazioni del 2019 raccontano proprio di questa ritrovata pacifica convivenza tra corleonesi, anche i più intransigenti, e quegli scappati ritornati da oltreoceano per riprendersi i territori che erano stati costretti ad abbandonare 30 anni prima, tornando in pratica a «gestire indisturbati i loro affari illeciti anche di un certo rilievo; anche nelle più recenti indagini non emergono segnali di ideazione di fatti di sangue o, in ogni caso, di violenza da una parte o dall’altra», sottolinea infatti il presidente Frasca. Il quadro che emerge, non solo dalle indagini svolte, ma anche dai racconti dei collaboratori, alcuni anche dello spessore criminale di Francesco Colletti e Filippo Bisconti, rispettivamente accusati di essere stati i vertici dei mandamenti di Villabate e Belmonte, «è quello di una piena e inquietante identità tra l’organismo direttivo in esame e la struttura storica della Commissione provinciale di Cosa nostra. E ciò risulta definitivamente comprovato – spiega – dall’assoluta sovrapponibilità tra le regole organizzative e funzionali descritte dagli stessi e i precetti che si ritrovarono consacrati per iscritto in un pizzino ritrovato nel covo di Salvatore e Sandro Lo Piccolo quando furono arrestati, il 5 novembre 2007». Una sorta di decalogo del buon mafioso.

«Si può ritenere che nell’anno in corso la “pressione” giudiziaria su Cosa nostra della provincia di Palermo ha raggiunto la massima intensità: ogni mese, di regola, vengono eseguite alcune decine di misure cautelari detentive (complessivamente da trenta a quaranta, oltre alle contestuali misure reali) riguardanti la mafia territoriale palermitana e il traffico organizzato degli stupefacenti, che costituisce la prima fonte di reddito della mafia». E che comporta l’acquisto della sostanza da Calabria e Campania, mediante organizzazioni dedite a tali attività non direttamente riconducibili a Cosa nostra, che però ha solitamente un referente di fiducia nell’ambito di tali organizzazioni. E poi c’è l’intramontabile pizzo, attività storica con cui si riparte a maggior ragione all’indomani di una vasta operazione perché rappresenta lo strumento più semplice da adottare o rimodulare in tempi brevi. Senza contare gli interessi per le slot machine o per gli appalti, anche questo uno degli intramontabili interessi della mafia. «Ma la mafia degli affari, leciti o illeciti, continua a manifestare una forza di penetrazione spesso capillare in quasi tutti i settori che consentono adeguati profitti, anche i più insoliti – spiega -. L’efficacia del contrasto sarebbe notevolmente incrementata se i tempi di decisione del gip non fossero, per motivi eterogenei ma soprattutto per carenza di magistrati e di personale amministrativo (che, peraltro, affligge anche questo Ufficio), eccessivamente dilatati (anche se recentemente si nota una riduzione dei tempi di attesa)». Tempi a parte, si continua senza sosta a martellare, nel tentativo di impedire la piena riorganizzazione delle famiglie e dei mandamenti mafiosi.

«In alcuni casi (come nel caso di tre omicidi bloccati in fase di programmazione) l’ufficio agisce non contestualmente alla consumazione dei reati, ma addirittura in prevenzione dei fatti più gravi. Attualmente è accuratamente monitorata buona parte di tutte le attività di Cosa nostra, tanto che si percepiscono stati di stress di alcuni associati (“..per ora ci stanno fotografando….ci stanno ascoltando…prima o poi ci arrestano”), che, però, continuano con pervicacia granitica a delinquere, senza nutrire alcun dubbio sull’opportunità di una desistenza – dice il presidente Frasca -. Esemplare, in tale senso, l’atteggiamento di Giovanni Buscemi che, appena in libertà dopo 24 anni di detenzione in carcere, ha subito accettato di essere nominato capo mandamento di Passo di Rigano. Viene, infatti, confermata l’elevata resilienza delle strutture organizzative di Cosa nostra palermitana, che, secondo criteri di comune buon senso, a fronte della costante ed efficace “pressione” esercitata dalla magistratura e dalla polizia giudiziaria, che hanno inferto colpi durissimi alla compagine associativa, apparirebbe improbabile, ma che è, invece, una realtà più volte verificata e comprovata. Sarebbe, pertanto, un errore gravissimo sottovalutare il potenziale criminale dell’organizzazione, prestando minore attenzione alle attuali pericolose dinamiche associative. Deve continuare il processo di logoramento della forza militare, territoriale, economica e politica di Cosa nostra, che ha già dato esiti molto positivi e che, mantenendo fermo l’attuale livello dell’attività giudiziaria, potrebbe fornire, già a medio termine, risultati decisivi».

Malgrado, però, la «meritoria attività di alcune associazioni antiracket, affidabili e realmente attive sul territorio, rimane esiguo il numero delle vittime che, di loro iniziativa, denunciano gli autori delle estorsioni». Le vittime, in genere, decidono di collaborare solo quando convocate dagli inquirenti, quando insomma il quadro probatorio è già ampiamente completo. Un atteggiamento che ha comunque la sua importanza, specie alla luce di quei casi in cui, al contrario, qualcuno nega i fatti anche di fronte all’evidenza e alla consapevolezza delle conseguenze giudiziarie in cui andrà incontro. «Proprio per tali motivi il valore simbolico della denuncia di iniziativa rimane elevato e importante», osserva il presidente, che più avanti tocca un tasto inedito e preoccupante: «Particolare attenzione merita la composizione e la partecipazione alle associazioni antiracket perché la possibilità di infiltrazioni mafiose, assolutamente impensabile un tempo, è attualmente possibile. Occorre, pertanto, una ragionevole prudenza da parte delle associazioni e dell’autorità giudiziaria». Un rischio, quello delle infiltrazioni, che più in generale «rimane elevato in tutti i livelli – come sottolineato dal presidente Frasca -, siano essi meramente amministrativi che politici, dei Comuni e degli enti di piccole e medie dimensioni del territorio qui di interesse».

Ma c’è chi, intervenuto dopo il presidente, non ha tralasciato di ricordare anche gli scandali che hanno travolto proprio la magistratura nel 2019. «Il Consiglio Superiore della Magistratura deve voltare pagina – il commento infatti di Di Matteo -. Quel che è venuto alla luce dall’inchiesta di Perugia deve indignarci, ma non può sorprenderci perché è la fotografia nitida di una patologia grave che si è diffusa come un cancro e che ha portato allo strapotere delle correnti e al collateralismo con la politica, logiche che hanno allontanato l’organo di autogoverno dagli scopi per cui la Costituzione lo aveva previsto». Intanto, scandali a parte, il lavoro dei singoli uffici del distretto di Palermo si fa sempre più serrato e attento. Portando a risultati concreti, malgrado le difficoltà ancora esistenti. «Il 70 per cento dei fascicoli dell’ufficio gip si chiude con decreto di archiviazione, il 14 per cento con un decreto che dispone il giudizio, il 9 per cento con un decreto penale di condanna e circa l’8 per cento con una sentenza che segue alla scelta di riti alternativi – spiega -. Il 39 per cento dei procedimenti trattati dai Tribunali in composizione monocratica si chiude con una sentenza di condanna, il 35 per cento con una sentenza di assoluzione, il 6 per cento con una sentenza promiscua, in parte condanna e in parte assoluzione e il restante 20% con diverse modalità di definizione. Per i procedimenti trattati in composizione collegiale – prosegue – è analoga la percentuale di sentenze di condanna (39 per cento), mentre è pari al 27 per cento la percentuale di sentenze di assoluzione ed è pari al 22,50 per cento la percentuale di sentenze promiscue».

Silvia Buffa

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