«Una storia criminale a sfondo economico-finanziario durata almeno un decennio». È così che i finanzieri aretusei hanno definito la vicenda ricostruita nell’ambito dell’operazione Gap che ha portato a dodici indagati, al fallimento di cinque società (Nms Srl, Gap srl, Cipis srl, Clai siracusana srl e Mfb srl) e al sequestro di 43 milioni 912mila euro. L’ambientazione è alla zona industriale di Siracusa, tra Priolo e Melilli, nel rapporto tra grandi committenti e società commissionarie. Protagonisti assoluti sono i due imprenditori Isabella Armenia e Stefano Bele, marito e moglie, che sono finiti in carcere con l’accusa di avere organizzato una rete societaria che sarebbe riuscita a fare sparire il debito fiscale e previdenziale delle società.
Quello realizzato da «la signora» e «l’ingegnere» – così si sarebbero fatti chiamare i coniugi per non essere individuati – è «un sistema di scatole vuote che avrebbe assorbito, senza onorarlo, il carico fiscale e contributivo di tutte le società», spiegano gli inquirenti. Questo anche grazie alla compiacenza di co-protagonisti con precisi ruoli e di uno staff amministrativo formato da faccendieri e prestanome. «C’è stato un periodo iniziale – dicono – in cui la signora era formalmente assunta con contratto di co.co.co ma con compensi anche dieci volte superiori all’amministratore».
Il ruolo di factotum sarebbe spettato a Luigino Longo, titolare di uno studio di consulenza adesso sottoposto al divieto temporaneo dell’esercizio della professione. «Soluzioni creative» è la dicitura con cui il commercialista proporre operazioni illegali in una mail inviata a Armenia. A mettere a disposizione le proprie competenze professionali sarebbe stato anche Massimo Capizzi (ora sottoposto al divieto di espatrio). Lui avrebbe assunto il ruolo di talent scout per i prestanome: persone poco abbienti che sarebbero state reclutate soprattutto tra i frequentatori della mensa della Caritas di Augusta e che si sarebbero prestate a intestarsi le società in cambio di cifre irrisorie, dai 50 ai 200 euro al massimo.
«Il fine ultimo sarebbe stato quello di fare prendere appalti a prezzo ribassato alle società perché – spiegano gli inquirenti – si sa già che verranno eseguiti senza una parte dei costi. Con questo metodo si consente anche un arricchimento di queste persone». L’indagine, partita nel
2017 da verifiche fiscali alle società, ha fatto emergere la tecnica con cui sarebbe stata attuata la frode: il
Consorzio Cipis, creato ad hoc, mantenuto pulito e gestito sempre dai due coniugi, si sarebbe aggiudicato appalti da grandi committenti a prezzo ribassato per la manutenzione degli impianti del comprensorio industriale. Il prezzo, eccessivamente basso, non avrebbe infatti tenuto conto dell’importo dovuto allo Stato. Il lavoro veniva fatto svolgere poi a diverse consorziate che si sarebbero susseguite nel tempo: in pratica, quando una società raggiungeva debiti tributari troppi alti, veniva sostituita da una nuova impresa. «A cambiare però – sottolineano gli inquirenti – era solo il logo sulla casacca indossata dai lavoratori». Stessa maestranza, stessi mezzi, stessi vertici per le società che avevano a che fare con grandi committenti (Isab, Priolo servizi, Versalis, Saipem) alle quali avrebbero presentato anche documenti (Durc e Unilav) falsificati.
Le attività investigative hanno dimostrato che il drenaggio di risorse sarebbe avvenuto anche attraverso una società di diritto locale costituita a Malta, la Sofintex, con lo scopo di emettere dall’estero fatture per operazioni inesistenti solo nei confronti di una delle società fallite che, pagando i falsi documenti, avrebbe svuotato le proprie casse (per circa tre milioni di euro) a vantaggio della coppia. Nella stanza dell’hotel in cui vivevano, i finanzieri hanno trovato anche la contabilità di tutte le società. «Durante la perquisizione hanno cercato di nascondere due cellulari e un pc in cui c’erano diverse conversazioni, tra cui anche una con un sindacalista che va a parlare con loro e batte i piedi per evitare che siano i lavoratori a pagare le conseguenze delle loro azioni».
«Un sistema complesso che è stato in grado di alterare i delicati e particolari equilibri economici all’interno del polo petrolchimico. Un’alterazione del mercato che si riverbera su tutto il settore», fa notare la procuratrice Sabrina Gambino. Altro elemento emerso dalle indagini è «l’alterazione dei diritti fondamentali dei lavoratori». Circa 220, ai quali in dieci anni non sarebbe stato versato nessun contributo. «La nostra proposta – affermano gli inquirenti – è dare in custodia al capo cantiere le società con possibilità d’uso dei mezzi per limitare l’impatto sui lavoratori già vittime».
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