«Per me il depistaggio inizia quello stesso 19 luglio 1992, col furto dell’agenda rossa». Così Nino Di Matteo, ex pm della Dda che, all’epoca, si occupò anche delle stragi del ’92, oggi consigliere del Csm, sentito a Caltanissetta al processo per calunnia aggravata a carico dei funzionari del gruppo Falcone-Borsellino Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei. Il magistrato, arrivato alla Procura di Caltanissetta nel settembre ’92, riparte dal principio e da quanto già detto non solo durante la sua deposizione al Borsellino quater, ma anche durante le due sedute in Commissione nazionale antimafia. Di Matteo inizia effettivamente a occuparsi delle indagini su via D’Amelio solo dal novembre ’94, dopo l’arresto di Vincenzo Scarantino. «Tra il bis e il ter, non lo dico con polemica ma rispetto alle tante falsità dette, sono state inflitte 26 condanne definitive per strage, mai messe in discussione dopo il pentimento di Spatuzza. Io ho chiesto e ottenuto 26 condanne definitive per la strage di via D’Amelio», vuole precisare subito. Mentre seduta in aula, ad ascoltare quella che sarà una deposizione fiume di parecchie ore c’è, a fianco dei numerosi giornalisti accorsi, Fiammetta Borsellino.
Gli inizi:
«Ricordo perfettamente il primo incarico, non solo per il coinvolgimento professionale ma anche personale ed emotivo – riprende subito a dire -, è stato un pezzo importante della mia vita, di questa vicenda ho continuato a occuparmi sempre, anche se con competenze diverse, sia a Palermo che alla Procura Nazionale Antimafia, quindi ho la presunzione di ricordare tutto bene». Quel primo incarico glielo dà, in maniera ufficiosa, l’allora procuratore capo di Caltanissetta Tinebra: «”Sarebbe opportuno, rispetto ai verbali già resi da Scarantino che presentano aspetti di problematicità (lo constatai leggendo i verbali: al quarto o quinto interrogatorio lui aveva aggiunto dei nomi di persone presenti a una riunione a villa Calascibetta, e tre erano collaboratori), sarebbe opportuno che un magistrato che non l’ha mai sentito lo interroghi partendo da capo, come se fosse la prima volta che un magistrato della procura di Caltanissetta raccolga la sua versione”». Sarebbero state queste le parole di Tinebra a Di Matteo. Che interroga Scarantino per circa tre-quattro giorni consecutivi, alla questura di Genova, dove tutto viene messo a verbale. Quando arriva lì, tra l’altro, Di Matteo è anche costretto ad aspettare un’ora prima di cominciare, «perché quando arrivai era in corso un interrogatorio dei colleghi della Procura di Palermo».
«Quando iniziai non ci fu mai una pausa, lo ricordo con particolare nettezza della memoria perché a un certo punto era necessario per il collaboratore, ma anche per me, rifocillarci e io non volli interrompere, non gli consentii nemmeno di uscire dalla stanza e feci portare lì dei panini – racconta il magistrato -. Lui si mise in un angolo, io in un altro completamente girato, in quel momento ebbi la sgradevolissima sensazione di stare mangiando un panino nella stessa stanza con una persona che aveva partecipato, anche se marginalmente, a quella strage per cui io avevo pianto molto. Questa sensazione di disagio me la porto dietro». Nessuna pausa anche negli interrogatori successivi. «Non posso dire che non ci furono mai sospensioni negli interrogatori successivi, ma posso dire che io non ho mai parlato con lui in un momento di interruzione né ho mai visto dei colleghi farlo».
I ricordi su Bo, Mattei e Ribaudo:
Nei ricordi di Di Matteo, poi, quello con cui si confrontava maggiormente era Mario Bo, ma anche gli ispettori Maniscaldi e Ricerca. Di Michele Ribaudo ricorda che accompagnava spesso il dottor Bo, mentre di Fabrizio Mattei aveva un ricordo collegato a un fatto completamente diverso: «A Palermo in uno dei primi processi di cui mi occupai a carico di un funzionario dei Servizi che aveva fatto carriera con Contrada, D’Antone, lo rividi perché era testimone di una situazione che pesò molto poi nella condanna definitiva per concorso in associazione mafiosa. Quella di Mattei fu una delle testimonianze più importanti. Raccontò due episodi: la sua presenza al battesimo del nipote di Pietro Vernengo alla chiesa della Magione, e il mancato blitz all’hotel Costa Verde di Cefalù. La sua testimonianza pesò molto in termini di accusa per la condanna definitiva di D’Antone».
«Gli uomini del gruppo Falcone-Borsellino non è che la vivessero con molto entusiasmo la gestione di Scarantino – dice più avanti -, erano proiettati per fare indagini sulle stragi. Invece stavano ad ascoltare le sue continue lamentazioni nei confronti dello Stato e verso chi a suo dire gli aveva promesso sistemazioni lavorative per sé e la famiglia e che aveva poi disatteso queste aspettative. Faceva sempre i nomi del dottor Gabrielli e di Arnaldo La Barbera». È un gruppo, quello Falcone-Borsellino, che nei suoi ricordi «si recava sul posto in cui Scarantino era con la famiglia saltuariamente. Non ho un ricordo di loro che per tutto l’arco della collaborazione si stabilisce lì dove si trova, 365 giorni l’anno, 24 ore al giorno. C’era una protezione locale, non c’era esclusività da parte del gruppo Falcone-Borsellino, loro andavano in supporto, a dare il cambio». Non sa, quindi, spiegare le ragioni per cui, al contrario, risulta una presenza continuativa con Scarantino da parte degli agenti del gruppo investigativo.
I rapporti tra la Procura di Caltanissetta e il Sisde:
«Nel ’95 mi occupai della riapertura dell’indagine per concorso in strage a carico di Bruno Contrada. In quel momento devo dire che, a parte l’impegno dei dibattimenti che era diventato parossistico, mi concentrai molto su quello che io ritenevo un’ipotesi molto plausibile circa la partecipazione di elementi esterni nella strage di via D’Amelio e in particolare di elementi appartenenti ai Servizi – spiega -. Mi accorsi che il Sisde aveva prodotto, nell’immediatezza della strage, una nota informativa su Scarantino, molto approssimativa e fondata su delle voci, in cui si parlava di una parentela con qualcuno della famiglia Madonia. Questa occasione importante per fare chiarezza», dice a un certo punto, prima di ripercorrere quel filo dal principio. «Fino a quando ci sono stato io non ho mai visto né constatato né percepito né mi è stato detto che la polizia giudiziaria e il gruppo Falcone-Borsellino avesse rapporti col Sisde. Constatai però una cosa che mi diede fastidio: che un soggetto che si presentava ufficialmente come il capo centro della sede del Sisde di Caltanissetta, Rosario Piraino, aveva l’abitudine di frequentare non solo la Procura di Caltanissetta: cioè questo ogni tanto, amichevolmente, bussava ai sostituti, io non gli ho mai dato la possibilità di parlare nemmeno lontanamente di processi e inchieste. Ma aveva una certa frequentazione anche con molti giudici, compresa una collega coinvolta nel procedimento via D’Amelio uno. Io non ho mai avuto rapporti coi Servizi, mai nemmeno la polizia giudiziaria per quanto mi consta, ma intanto c’era questo soggetto che frequentava costantemente gli uffici di Caltanissetta e magistrati giudicanti».
Sulla pista che punta al Sisde, a un certo punto, si inseriscono anche le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Elmo, che spingono Di Matteo a chiedere e ottenere la riapertura delle indagini su Contrada. Sono gli anni a cavallo tra il ’96 e il ’97. «Si trovava nei pressi di via D’Amelio il giorno della strage e si era avvicinato dopo la deflagrazione, vide Contrada avvicinarsi con una borsa o dei documenti in mano. Mi dispiace dirlo, ma quell’attività venne riaperta su mio esclusivo input: lessi tutto il suo fascicolo, le sue agende sequestrate, vidi che quel Piraino era il soggetto che due giorni dopo la strage aveva accompagnato Contrada da Tinebra qui a Caltanissetta. Vidi anche una cosa che mi fece un po’ saltare in aria – continua Di Matteo -, c’era stato un ufficiale del Ros, all’epoca capitano, che pochi giorni dopo la strage era andato in procura a Palermo e aveva riferito a dei magistrati, credo Ingroia, che la prima volante accorsa in via D’Amelio della polizia aveva constatato la presenza lì di Contrada e aveva fatto una relazione di servizio, poi strappata in questura. I colleghi di Palermo avevano subito fatto verbale e mandato queste dichiarazioni a Caltanissetta. La collega Boccassini interrogò quel funzionario, Umberto Sinico, il quale mise a verbale che quella circostanza l’aveva saputo da un suo amico carissimo e che per tutelarlo non avrebbe detto mai la sua identità. Io volli parlare col procuratore aggiunto Giordano, dicendo che questa cosa non poteva finire qua, un maggiore dei carabinieri su una circostanza così importante non poteva comportarsi così, io volevo andare avanti».
Di Matteo interroga Sinico, che continua a non voler fare quel nome, quindi lui lo incrimina. Fino a che lui, un pomeriggio, lo raggiunge al palazzo di giustizia: vuole finalmente fare quel nome: «Nel frattempo avevamo già sentito Canale, fatto dei confronti, tutta un’attività molto penetrante anche con intercettazione di esponenti dei Servizi. Quel giorno – racconta Di Matteo – aveva con sé una memoria, voleva dire quel nome, si trattava del collega Roberto Di Legami, un ex appartenente al Ros che aveva vinto il concorso in polizia ed era passato alla mobile di Palermo, “mi disse sconvolto questa cosa al tavolino di un bar a Palermo”. Noi andammo ulteriormente avanti, facendo altri confronti, ma Sinico e Di Legami rimasero sulle proprie posizioni. Io continuai a occuparmene anche quando andai a Palermo, chiesi il rinvio a giudizio di Di Legami. Poi a Palermo non riuscivo ad avere più notizie del processo, so che si è concluso con l’assoluzione definitiva. Rimane un dato: su una circostanza così importante, i Servizi presenti in via D’Amelio (ancora non c’era stata la foto che fece incriminare Arcangioli), quella presenza, se vera, non poteva essere casuale. Lì o hanno mentito i carabinieri (Sinico ma anche Del Sole, gli ufficiali che avevano sentito quella versione) o ha mentito Di Legami, ma lì c’è sentenza definitiva».
«La pista Contrada presente in via D’Amelio, poi disattesa dalla testimonianza di sette persone che lo davano presente in barca in quel momento, è stata avviata dalle dichiarazioni degli ufficiali del Ros. Il collaboratore Elmo aveva detto che insieme a Contrada in via D’Amelio aveva visto anche Narracci, capo centro del Sisde di Palermo, per noi non era un nome qualsiasi – spiega -. Era stato trovato un bigliettino col suo numero personale a poche decine di metri dal cratere di Capaci il 23 maggio. Abbiamo proceduto anche con un’individuazione di persona alla Dia di Palermo, convocando Narracci: Elmo non lo riconobbe. Poi ho saputo in seguito che avrebbe dichiarato di averlo riconosciuto ma di non averlo dichiarato perché indotto da un ufficiale di polizia che assisteva lì i magistrati». Sempre rispetto al Sisde, Di Matteo spiega di non aver mai saputo di una collaborazione coi Servizi da parte di Arnaldo La Barbera, con cui negli anni si sarebbe solo scambiato i saluti, nulla di più. «Spesso incontravo Boccassini con queste persone. – racconta – Ogni volta che c’era un problema di qualsiasi tipo, dall’invio di uomini o mezzi, Tinebra assumeva sempre su di sé la responsabilità di dire “ah ora chiamo il capo della polizia, chiamo La Barbera”, sicuramente avevano rapporti significativi».
Le note di Boccassini e Sajeva e l’attendibilità dei collaboratori:
«Ne vengo a conoscenza tra il 2008 e il 2010, nell’ambito di un’attività di coordinamento con Caltanissetta mentre io sono alla Dda di Palermo. Né prima né dopo ho saputo di lettere relative alla collaborazione di Scarantino. Con Boccassini non ho avuto mai la possibilità, la fortuna, l’occasione di parlare di alcuna indagine – dice -. Per me lei è un magistrato che sono portato a stimare tantissimo per quello che ha fatto, ma con la quale il momento di conoscenza è stata limitato a incontri casuali al bar del palazzo di giustizia, mai partecipato a una riunione estesa ai membri della Dda in cui fosse presente anche lei. Ho saputo di queste lettere solo dopo, quando a Palermo mi occupavo di Spatuzza. C’erano dubbi molto seri sull’attendibilità di Scarantino, quando lui ha introdotto i nomi di questi altri soggetti. C’erano dubbi su di lui ma c’erano anche fortissimi dubbi sulla genuinità e sulle dichiarazioni rese fino a quel momento da Mario Santo Di Matteo: su di lui c’era un’intercettazione del colloquio con la moglie Franca Castellese, era la prima volta che i due si vedono dopo il rapimento del figlio, un momento drammatico. In cui lei non è che invita il marito a ritrattare quello che aveva già detto sulle sue conoscenze sulla strage di Capaci, ma lo invita a non parlare di via D’Amelio alludendo a infiltrati esterni, anche della polizia. Non l’abbiamo incriminata perché in quel momento non avevamo la forza di andare avanti in un processo… Non è che ci siamo impietositi perché si trattava di una signora che aveva subito il sequestro e la morte di un figlio, ma abbiamo valutato che in quel momento non avevamo elementi sufficienti a sostenere un’accusa di giudizio. Forti dubbi anche su Totò Cancemi: lui fino al ’93 dice che i mandamenti coinvolti erano quelli di Guadagna e Brancaccio, ma sapevamo che non sapeva solo questo, era reticente».
«Anche se ero l’ultimo venuto lì, sono stato il primo a pretendere che si facessero dei confronti, che non depositiamo subito nel Borsellino bis, ma dopo, in coincidenza dell’udienza dibattimentale del bis in cui viene sentito Cancemi e il rinvio per il ter. Quindi comunque prima che l’istruttoria dibattimentale finisca. Su questa storia siamo stati denunciati a Catania, c’è stata l’archiviazione, ma le date sono importanti – spiega lui -. Non depositarli subito fu una decisione dell’intera Dda stabilita in una riunione». Ma in questa storia c’è anche quanto raccontato da quello che è passato alla storia come il falso pentito di via D’Amelio. «Quando si dice che i primi tre processi si basano esclusivamente sulle dichiarazioni di Scarantino, che i pm che lo hanno valutato lo hanno ritenuto perfettamente attendibile, si sbaglia. Nel bis sono stati condannati altri sei soggetti, la cui condanna non è mai stata messa in discussione; altra cosa, su Scarantino abbiamo dato un giudizio di attendibilità molto limitata, nel ter non lo abbiamo nemmeno voluto inserire nella lista dei testimoni e non era intervenuto ancora Spatuzza; e nel bis nei confronti di chi era accusato esclusivamente da Scarantino noi abbiamo chiesto l’assoluzione, una cosa che non viene mai detta da nessuno. Scarantino da un certo punto in poi aveva iniziato da solo a inquinare il quadro delle sue dichiarazioni. Questi sono dati di fatto, non sono mie valutazioni che nemmeno mi permetto di fare».
Vincenzo Scarantino – colloqui, ritrattazioni e preparazioni al processo:
«Sono venuto a conoscenza da alcuni atti processuali che sarebbero stati fatti diversi colloqui investigativi con Scarantino prima del suo formale interrogatorio, ne vengo a conoscenza in una di queste aule, quando sono stato sentito nel 2015. Io non sono mai stato a conoscenza di questi colloqui fatti prima, a me non è stato detto nulla e se lo avessi saputo non li avrei autorizzati, perché nel momento in cui un collaboratore inizia a collaborare non ho mai ritenuto opportuno che avesse colloqui riservati con le forze di polizia – precisa il magistrato -. In quel periodo c’era una situazione particolare: si era venuta a determinare una situazione di latente anche se non dichiarato conflitto, su alcuni collaboratori, tra la Procura di Palermo e quella di Caltanissetta. Non tanto su Scarantino, ma su Cancemi: per Caltanissetta, pur ritenendo quest’ultimo incredibilmente reticente su via D’Amelio, era comunque importante per ricostruire aspetti esecutivi della strage di Capaci, aveva reso dichiarazioni più o meno significative relative ad alcuni magistrati in servizio a Palermo. Palermo non lo riteneva attendibile invece. Un contesto particolare in cui probabilmente questo mancato confronto sull’esito delle varie indagini che scaturivano dalle dichiarazioni di Scarantino può essere un tassello di un riquadro molto più ampio».
E, proprio sull’attendibilità del picciotto della Guadagna, sono tante le cose che ha da dire Di Matteo. Che non nega i dubbi su di lui. «Uno dei motivi che ci faceva ritenere in parte attendibile Scarantino era relativa all’asserito coinvolgimento dei fratelli Scotto: lui disse che aveva incontrato sabato 18 luglio ’92 in un bar della Guadagna Gaetano Scotto, che gli avrebbe detto “stavolta lo abbiamo fottuto con il telefono della madre“. Alcuni famigliari di Borsellino avevano riferito che avevano visto dei soggetti lavorare alle cassette telefoniche nella scala del palazzo dove viveva la madre di Borsellino. Effettivamente la concessionaria che se ne occupava, riconoscendo anche in foto Pietro Scotto, disse di essere intervenuta in quei giorni, ma per attivare un’utenza telefonica. A lavorare risultano come operai persone diverse comunque da Pietro Scotto. Parliamo di dichiarazioni di Scarantino che quindi trovavano conferma – spiega -. Ci sono aspetti anche di coincidenza tra le dichiarazioni di Scarantino e quelle di Spatuzza, che mi fanno pensare alcune cose… C’erano tante cose che coincidevano, eppure nel bis lo abbiamo utilizzato in maniera marginale».
Sa poco e nulla, poi, della ritrattazione televisiva su Mediaset al giornalista Angelo Mangano, dei contenuti e di quello che scatenerà quell’episodio: «Io ero in ferie, mi venne comunicato tutto giorni dopo, quando Scarantino era già stato interrogato da Carmelo Petralia e aveva detto di essere stato spinto a quelle ritrattazioni per le promesse non mantenute e le condizioni precarie dei suoi famigliari. Già nel ’95 avevamo contezza, almeno per deduzione, che ci fosse anche una pressione famigliare non benevola su di lui (era stato da poco arrestato il cognato Salvatore Profeta). Insomma, quando io seppi tutto la cosa si era già sgonfiata, era già finito tutto là». Sembra saper poco anche di un altro passaggio su cui oggi, non solo a Caltanissetta, si stanno concentrando le attenzioni e le considerazioni dei magistrati, le intercettazioni di Scarantino a San Bartolomeo al Mare: «Non le ricordavo, c’ho ripensato dopo averne letto di recente. Chi ha firmato il decreto di intercettazione non aveva certo il carbone bagnato o nulla da nascondere. Ricordo, e sottolineo che sono stato il primo a dirlo, che Scarantino ricordava male, qualcuno gli aveva dato il mio numero di cellulare anche se disse il contrario, mi lasciò una serie di messaggi alla segreteria telefonica in cui ribadiva le solite cose, che La Barbera e Gabrieli avevano tradito le aspettative, che voleva tornare in carcere e in particolare “nell’inferno di Pianosa”».
«Seppi che era stato Tinebra a dargli il mio numero – precisa -. Io non do spiegazioni, ma mi preme dire una cosa: in quel momento i collaboratori portavano avanti pretesti, a volte pretese assurde, a volte situazioni di grande difficoltà, vedevano nell’ufficio del procuratore una speranza di risoluzione di quelle problematiche. Non faccio valutazioni, ma siccome quello era il periodo, in cui è capitato che mi telefonassero per esempio Cancemi, Mutolo… è capitato di vedere con colleghi di Palermo che anche loro avevano questo tipo di rapporto…. Non erano telefonate per parlare di processi e indagini, ma per dire “io qui sto scoppiando, datemi una soluzione dignitosa per me e la famiglia“, così come mi è capitato anche con Di Carlo. Mentre per me è stato un dato eccezionale e mi ha fatto incavolare che qualcuno gli avesse dato il mio numero, ma capitava che negli uffici accadesse questo. La magistratura stava facendo il massimo sforzo di reazione dopo le stragi, all’epoca c’erano decine di latitanti, centinaia di mafiosi liberi, credo che facessero bene i pubblici ministeri – alla luce di quel contesto – a rispondere ai collaboratori che esponevano le loro problematiche. Mai nessuno con me si è permesso di dire che volevano aggiustare qualche dichiarazione. E posso assicurare che l’attività di preparazione al processo del collaboratore…- ma lascia in sospeso la frase, per riprendere subito dopo -. Io ho preparato Cancemi, Ferrante, Onorato, tutti quelli che smentivano Scarantino. Preparare significava semplicemente dire “giorno tot comparirà davanti alla corte d’assise, gli argomenti saranno questo, questo e quest’altro, dica la verità, né una cosa in più né una meno, esponga i fatti con chiarezza”, questo era preparare, era un costume, una prassi seguita da tutti. Si chiedeva al collaboratore di essere chiaro, sincero, lineare».
Anche perché a un certo punto ci fu «questa progressione improbabile delle dichiarazioni di Scarantino, col forte dubbio che fosse dovuta quasi a un suo intento di essere smentito. Era un collaboratore certamente problematico, di cui l’attendibilità non era assolutamente certa né scontata. Penso sia stato uno scrupolo che si è voluto seguire quello di intercettarlo, per avere un certo monitoraggio. Fin da quel momento i dubbi c’erano, anche senza la lettera della Boccassini che io nemmeno ho letto, si dibatteva. Scarantino però – dice a un certo punto Di Matteo – rappresenta un piccolo segmento di una storia che già anni fa era molto più ampia, che ha portato a 26 condanne, all’incriminazione di Contrada, Berlusconi, Dell’Utri e altri. Tutto questo fatto da me e i miei colleghi, un’attività che ancora oggi pesa moltissimo sulla mia vita e su quella della mia famiglia. Abbiamo fatto di tutto, ci siamo scontrati con reticenze istituzionali bestiali. Forse oggi lo spirito è cambiato, ma noi se dovevamo fare una cosa la facevamo, se poi i dirigenti si arrabbiavano…si arrabbiavano. Per me la ritrattazione di Scarantino era scontata – continua a dire più avanti -, non mi ha sorpreso per niente quando l’ha fatta a dibattimento. Non abbiamo indagato sulla sua ritrattazione, ma su una possibile induzione a ritrattare: c’era un dato di fatto grande quanto una casa, c’era Cosima D’Amore, moglie di Gaetano Scotto allora latitante, che diceva che c’erano gli avvocati che stavano raccogliendo soldi per la ritrattazione di Scarantino. Qui il problema non è ritrattazione veritiera o meno, ma spontanea o coadiuvata da altri».
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