Racket, pizzo, estorsione: comunque lo si chiami, resta il business preferito dalla mafia. La clamorosa operazione della Direzione Distrettuale Antimafia che ha smantellato il tentativo di restaurazione della Cupola mafiosa ha confermato, se mai ce ne fosse bisogno, che il pizzo resta non solo una delle più diffuse forme di reddito per le cosche ma che rimane una odiosa modalità di controllo del territorio. E, come scrivono gli inquirenti, «finisce con l’accrescere l’autorità e il prestigio di chi lo impone». Insomma: se sai taglieggiare i commercianti in Cosa nostra fai carriera.
Ne è un esempio la vicenda che vede protagonista Rubens D’Agostino. Presunto affiliato alla famiglia mafiosa di Porta Nuova e responsabile, secondo le indagini, del racket della zona. E quando una vittima gli manifesta le proprie difficoltà a fronteggiare le richieste estorsive («non ce la faccio più»), D’Agostino non fa una piega e risponde: «e che minchia vuoi, te ne vai da Palermo». Segno dunque che non c’è spazio per l’umana pietà nel mandamento di Porta Nuova, definito dagli investigatori una «vera e propria holding del crimine con interessi in ogni ambito criminale».
A leggere le 3326 pagine dell’ordinanza con la quale sono stati disposti 46 arresti si può tracciare una mappa di chi ha scelto negli anni di pagare. Ma, seppur minori, cominciano a spuntare anche vari commercianti che superano la paura e decidono di denunciare. Ciascuno si ribella a suo modo. Francesco Massaro, ad esempio, titolare dell’omonimo bar in via Basile nel 2015 rispolvera il passato da cronista del Giornale di Sicilia e si rivolge alla stampa. Dopo la settima rapina in sette mesi – che lo porta a interpretare le azioni particolarmente vessatorie come un’indotta richiesta di pizzo – scrive ai giornali ribadendo che non si sarebbe «mai abbassato ad accondiscendere alle richieste di alcuno». E, secondo il suo racconto, nessuno si avvicina (anche se le rapine continuano: l’ultima, eclatante, lo scorso febbraio ad opera di sette persone incappucciate).
C’è chi invece è ancora più netto. È il caso di Giuseppe Piraino, titolare e amministratore unico della ditta Mosina Costruzioni srl. A settembre del 2018 sceglie di recarsi presso il comando provinciale dei carabinieri per denunciare un tentativo di estorsione. La sua ditta sta effettuando dei lavori di ristrutturazione presso uno stabile a piazza Monte di Pietà, nel cuore del quartiere Capo. I suoi operai gli raccontano che da alcuni giorni un uomo, poi identificato in Luigi Marino, chiede chi sia il titolare della ditta e lancia sguardi minacciosi. Piraino, per nulla intimorito, decide di affrontarlo. Porta con sé un registratore e, a piazza Beati Paoli, incontra l’uomo che subito lo aggredisce. «Lei non lo sa come ci si comporta? Quando si va a casa degli ospiti si bussa». Una frase inequivocabile alla quale Piraino risponde: «ha sbagliato persona, io sono per la legalità, faccia conto che lei ha uno sbirro davanti, ho un ex carabiniere in famiglia».
Segnali ancora individuali, certamente, ma che incoraggiano. Il comandante dei carabinieri Antonio Di Stasio, che ha parlato di una «piena collaborazione dei commercianti che avevano subito richieste di pizzo» e di «un passo avanti», tanto da parlare di «una rottura del muro di omertà». E a guardare positivamente all’azione dei colleghi è Gianluca Maria Calì, imprenditore palermitano da sempre in prima fila nella lotta alla mafia, che ha fatto in un certo senso da apripista. «Chi non denuncia fa il gioco dei mafiosi, il silenzio è complice – dice il titolare dell’autosalone in viale Regione Siciliana, nei pressi dello svincolo di Bonagia – Magari tra i commercianti c’è chi pensa che rimanere tranquilli, pagare senza dire nulla, non fa nulla di male. Ma da operazioni come queste è evidente che i commercianti o denunciano o vengono scoperti. Perché tra le abilità degli investigatori, le intercettazioni, le dichiarazioni dei collaboratori e i pizzini è facile scoprire chi paga e chi no. A questo punto allora meglio denunciare prima».
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