La prima volta che ho incontrato Serge Collet era una luminosissima e fredda mattina di febbraio del ’99, piena di tramontana. Io allora lavoravo all’ufficio di gabinetto dell’assessorato regionale alla Pesca, in via degli Emiri a Palermo e naturalmente, mi occupavo di pesca. L’appuntamento istituzionale mi era stato preso dai colleghi dell’ufficio, i quali, una volta esperite le presentazioni di rito, mi hanno abbandonato con questo signore venuto dal Nord Europa e precisamente da Amburgo. Il tipo parlava benino l’italiano, ma sapeva anche il dialetto siciliano e, successivamente ho scoperto, anche quello calabrese. Ci siamo predisposti affinché il professore iniziasse ad intervistarmi. Siamo stati a dialogare oltre tre ore e mezzo, ricostruendo la mia esperienza e sopratutto quella di mio padre e di piccoli pescatori costieri del golfo di Catania.
Lui, etnologo e archeologo, era responsabile di un programma di ricerca europeo per conto dell’Istituto di Etnologia dell’università di Amburgo dall’acronimo Elsa-Peche (Ethical, Legal and Social Aspects of the management of Fisheries in Europe – 1998/2002), dove aveva introdotto il concetto di Antropologia marittima in Germania e dove per la prima volta la comunità scientifica affrontava il tema dell’etica nella pesca.
Di madre lituana e padre francese era nato l’otto febbraio del 1950 in
Francia. Lì aveva svolto gli studi e conseguito il dottorato nel ’79 presso la Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales. Il contesto culturale nel quale prendono avvio i suoi primi studi e le indagini sociali hanno a che fare con l’Unesco, che finanzia un progetto di ricerca, con il laboratorio Tecniche e culture del Centro nazionale ricerche francese, con la Maison des sciences de l’homme fondata nel 1963 da Fernand Braudel e dove incontra lo storico Maurice Aymard.
Queste ricerche lo hanno portato per decenni a studiare e confrontare i pescatori di pescespada di
Scilla e Bagnara con quelli di Messina, il sistema delle tonnare di Trapani, svariati angoli delle coste mediterranee alla ricerca di altri insediamenti alieutici.
In questo lungo percorso l’intellettuale e ricercatore diventa sempre più uno di noi, cioè un pescatore. Forestiero sì, ma il solo a cui, una volta conquistata la fiducia, si possono comunicare i segreti più intimi, personali e di famiglia. È così, da questo rapporto immanente, che lo studioso certifica con l’apprendimento del dialetto locale, la simbiosi si materializza.
Il frutto di questo rapporto viene sigillato con la pubblicazione del libro
Uomini e pesce – La caccia al pesce spada tra Scilla e Cariddi, edito nella collana Universitates saggi dall’editore catanese Giuseppe Maimone. Un saggio di antropologia e di storia, aperto a tutti i gusti di chi è interessato alla storia locale, alla pesca come espressione compiuta di una comunità marinara, al destino futuro della stessa attività economica raccontata, alla sedimentazione storica di un’attività produttiva che trova i suoi riferimenti nella tradizione greca antica dell’arte della pesca. Nel territorio dello Stretto di Messina, tra Scilla e Cariddi, una comunità di pescatori dislocati in tre siti principali, per quasi tre millenni ha costruito e utilizzato una tecnica di pesca rimasta viva e vitale nel tempo, con i suoi riferimenti territoriali, i suoi sinni terrestri, le sue strutture e sovrastrutture, patrimonio orale e materiale tramandato nel tempo: l’arte millenaria della caccia al pescespada.
È lì che l’uomo e il pesce, nell’arco temporale di una stagione di pesca, modellano vita, costumi e usi. Tutto questo fino ai primi anni ’60, quando la cosiddetta rivoluzione industriale nella pesca, legata sopratutto all’avvento del motore diesel, dilata all’infinito gli orizzonti marini a cui ora buona parte dei pescatori fa riferimento. Progressivamente, la modernizzazione dei sistemi di pesca, la tecnologia elettronica e la conseguente perdita di identità relazionale con il territorio costiero di pesca provoca un taglio netto tra il piccolo pescatore e il resto degli addetti.
Il processo di mutazione sociale ed economica diventerà presto l’anticamera della distruzione sistematica dell’equilibrio millenario tra uomo e pesce e perciò stesso tra uomo e natura.
Questa consapevolezza, porterà Serge a proseguire il suo itinerario Mediterraneo nello studiare e vivere altre comunità di pescatori, dove coniugando il suo essere etnologo, archeologo, storico e cittadino del mondo lo porterà ad essere uno dei coordinatori di un progetto mondiale sulla piccola pesca (
Ecost – programma INCO, 2004-2010), dove le esperienze ancora diffuse e resilienti presenti in tutti i mari del pianeta, permettono di ricomporre un decalogo di buone prassi, mantenimento e ricostituzione ecosistemica della piccola pesca costiera.
Queste esperienze progettuali aiuteranno le istituzioni Internazionali (Fao, Unione Europea) a promuovere un percorso di sostenibilità per il futuro dell’umanità e in particolare per le svariate comunità costiere di piccoli pescatori. Ed è ormai assolutamente condiviso che solo la piccola pesca, con i suoi saperi, le sue tradizioni e il rispetto dei cicli biologici può dare un futuro sostenibile ai nostri mari.
Per quanto mi riguarda, dopo quell’incontro della fredda mattinata palermitana, con Serge abbiamo condiviso molte cose oltre naturalmente a una grande amicizia, che possono sinteticamente essere ricomprese nel progetto di costruzione dell’ecomuseo del mare di Ulisse, da implementare partendo dall’esperienza di realizzazione del museo del mare di Ognina. Un progetto didattico e pedagogico, economico e ambientalista, integrato e socialmente condivisibile dalla comunità costiera etnea.
Per presentare questo progetto doveva venire a Catania in ottobre. Ma Serge ci ha lasciato la mattina del 5 agosto scorso, mentre si trovava a Creta, guarda caso in un’ isola tra le più grandi del Mediterraneo, in quel mare che lui amava tanto e che ha cercato di unire. Era in vacanza ma stava concludendo una nuova ricerca archeologico – antropologica sulle società marittime del Mediterraneo nella tarda età del bronzo, sul mondo minoico. Purtroppo la malattia ha vinto sulla forza della vita che lui esprimeva e trasmetteva come pochi sapevano fare.
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