«Ciao, ci vediamo alle 9». Sono le ultime parole scambiate con gli amici di una vita, prima di conoscere, qualche ora più tardi, quello che è successo a Peppino. Sono le sette del mattino quando Salvo Vitale torna a casa su una «scassatissima 850», dopo «una notte insonne alla ricerca di Peppino». Qualche ora in attesa di una notizia che, alla fine, arriva. «Ammazzaru a Pippinu», gridano gli amici che hanno suonato al suo campanello. «È il pugnale che entra tra le costole e arriva dritto al cuore. Ma non c’è tempo di sentire il dolore. Indosso in tutta fretta camicia, pantaloni, ho il tempo di dire a mia moglie “Pensa ai bambini”, esco con le ciabatte», direzione Radio Aut. Sono i ricordi, immortalati nero su bianco in un libro, dell’amico di una vita, quello stesso Salvo Vitale che in 41 anni non hai mai sprecato un giorno senza parlare di lui, di Peppino, senza ricordarlo, senza raccontarlo, senza insegnarlo a chi non l’ha conosciuto.
La tappa successiva è lì, alla fine di contrada Feudo, una stradina stretta che si affaccia sul reticolato dell’aeroporto, oggi costeggiata da villette e piena di studenti delle scuole di tutta Italia che vanno lì quasi fosse una meta di pellegrinaggio, oltre al fatto che da qualche anno si chiama proprio come quel giorno di 41 anni fa, via 9 maggio 1978. «Peppino, che guidava da cani e non aveva la patente, non avrebbe mai potuto entrare in quella stradina senza urtare con la macchina in qualche parte dei due muri – scrive Salvo nel suo ricordo di quel giorno -. Una sorta di cordone protettivo di carabinieri, con i loro mezzi, ci impedisce di andare avanti. C’è un gran da fare dappertutto. Stanno ricostruendo il binario, divelto per circa mezzo metro e ricoprendo una buca sotto la massicciata. Sui fili della luce, tirati tra un palo e l’altro, si notano brandelli di carne penzolanti: qualche gazza va a beccarli. Il maresciallo di Cinisi si avvicina e ci dice di presentarci in caserma».
Già quelle poche e disordinate immagini da sole restituiscono agli amici uno scenario terribile, cosa è successo a Peppino? Che ne è stato di lui? «Picciotti, chiddu chi vittiru l’occhi miei non vi lu pozzu cuntari. Era tuttu pizzuddicchia. Un pezzu di testa, tri ghirita, l’occhiali, i sannali. A na banna attruvai na coscia sana», dice sconvolto il necroforo comunale. Parole ancora oggi indelebili nella memoria di Salvo Vitale, che le ha raccontate in un libro di cinque anni fa, Cento passi ancora. Sulla scena non ci sono solo i resti di Peppino. Sparse nel terreno ci sono tre chiavi e i carabinieri ne cercano una quarta, che trovano poco distante in mezzo alle pietre, e un ciottolo «lordu di sangu». Intanto con in mano quella carta chiave i militari se ne vanno dritti a Radio Aut, dove rovistano tra le carte di Peppino e da cui portano via trionfanti una matassa di filo grigio uguale a quello che pendeva dai fili della batteria della sua macchina, che li convince che quella sia la prova che il militante sia andato da solo in quella strada stretta per mettere una bomba e fare saltare in aria il primo treno che passava.
«Ormai la notizia ha fatto il giro del paese, anzi dei due paesi, Cinisi e Terrasini, proprio nel modo in cui l’avevano ideata e messa in pratica gli assassini: un attentato fallito. E, per colmo di raffinatezza, non si tratta di un treno qualsiasi, ma di quello che porta i lavoratori e gli studenti a Palermo: così è distrutta non solo la memoria, ma tutta l’attività politica di Peppino, che alla causa dei lavoratori e degli studenti aveva dedicato la vita. Adesso invece si dice che aveva intenzione di farli saltare in aria. Come avrebbe potuto fare, visto che il treno sarebbe passato molte ore dopo l’esplosione, è un problema che non interessa. Sembra che il cerchio ci si chiuda addosso e che, nell’aria nazionale di indignazione e di antiterrorismo, noi, i compagni di Peppino, siamo diventati tutti terroristi o complici di un terrorista». E di colpo per tutti quell’uomo non è più un militante che dalla sua radio denunciava i padrini di mafiopoli e che lottava per i diritti di tutti, ma un pazzo, un sovversivo saltato in aria insieme al suo piano assassino. Lo pensano tutti, autorità in testa.
«Impastato si è voluto suicidare in modo eclatante e cioè legando il suo nome a un attentato terroristico». È il 26 giugno 1978 quando Antonio Subranni, all’epoca comandante del reparto operativo del gruppo di Palermo, scrive questa nota. Lui, cui spetta la competenza esclusiva sulla direzione delle indagini per la morte del militante trovato dilaniato sui binari della ferrovia a Cinisi, non sembra avere dubbi, e sin dal principio. Non vaglia nessun’altra pista, la risposta è tutta in quella nota. E malgrado a distanza di anni un giudice abbia parlato di «vistose (se non macroscopiche) anomalie delle attività investigative dirette dallo stesso», tirando in ballo l’«atto chiaramente abnorme del “sequestro informale” di documenti», come elementi riconducibili a un reato e che potrebbero condurre a un processo, otto mesi fa è scattata la prescrizione per quello stesso carabiniere che negli anni ha fatto carriera, diventando comandante del Ros. Che ha rimediato però una condanna in primo grado a 12 anni nel processo sulla trattativa tra lo Stato e la mafia, il cui appello è iniziato poco più di una settimana fa.
Piste alternative mai prese in considerazione, omissioni continue, approfondimenti inesistenti, prove mai prelevate dalla scena del crimine e una strana, inspiegabile fretta di chiudere la vicenda. Mentre la pista mafiosa «veniva invece aprioristicamente, incomprensibilmente, ingiustificatamente e frettolosamente esclusa», come scrive oggi il giudice palermitano che ha archiviato la posizione di Subranni. Una tesi cui diede impulso solo Rocco Chinnici, ucciso anche lui dalla mafia nell’83. Tesi strumentalizzata per suscitare la simpatia dell’opinione pubblica nell’ottica di una futura campagna elettorale, secondo il maggiore Tito Baldi Honorati, allora comandante del nucleo operativo del gruppo carabinieri di Palermo. «Si vuole fare osservare, e ciò è di immediata intuizione per chi conosca anche superficialmente questioni di mafia, come una cosca potente e all’epoca dominante come quella facente capo a Badalamenti – scriveva Honorati all’epoca – non sarebbe mai ricorsa per l’eliminazione di un elemento fastidioso a una simulazione di un fatto così complesso nelle sue componenti anche di natura ideologica, ma avrebbe organizzato o la soppressione eclatante ad esempio e monito di altri eventuali fiancheggiatori di Impastato, o la più sbrigativa e semplice eliminazione con il sistema della lupara bianca che ben difficilmente avrebbe comportato particolari ripercussioni».
Un quadro che, per dirla ancora con Turturici, «desta certamente stupore», per non dire impotenza rispetto a quello che ormai sembra condannabile solo a parole e non dentro a un’aula di tribunale. Ma a cui risponde oggi l’enorme folla di gente che tutti gli anni, e neanche solo di 9 maggio, sente il bisogno di tornare e tornare e tornare in quei luoghi per ricordare Peppino, per parlare di lui, per chiedere di lui. La sentono come una necessità, quella stessa che lo rende, a 41 anni da quella notte, più vivo che mai, in barba ai mafiosi che insieme al suo corpo volevano far saltare in aria le sue idee e a tutti quelli che ancora oggi non sanno vedere in lui un eroe a cui guardare.
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