«Aveva paura del mondo esterno e per questo, all’inizio, ha rifiutato i permessi premio che gli spettavano di diritto come a ogni altro detenuto». Il pentito di mafia palermitano Gaspare Spatuzza è tornato libero a 59 anni, dopo 26 passati tra carcere e permessi vissuti sotto protezione. A parlare a MeridioNews del suo rapporto con la libertà è Giovanna Montanaro, sociologa, studiosa dei fenomeni di criminalità organizzata e pentitismo, e già consulente della Commissione parlamentare antimafia nazionale che Spatuzza lo ha incontrato tra il 2012 e il 2013 quando era ancora in carcere. Incontri da cui è nato il libro La verità del pentito. «Mi raccontò che ai suoi tempi c’era ancora la lira e soprattutto che non esistevano tutti gli strumenti tecnologici e soprattutto i social». Novità di un mondo esterno che lo spaventano di fronte alla possibilità di usufruire dei permessi premio da 48 ore che, per legge, gli spettano in quanto collaboratore di giustizia. Un percorso iniziato nel 2008, dopo una conversione religiosa, e non condiviso dai familiari. «Per farmi capire cos’era per lui il senso di libertà – ricorda Montanaro – mi raccontò di una volta in cui in un carcere, durante l’ora d’aria, c’era una zona dove era cresciuta un po’ d’erba. “Ho cominciato a strapparla, annusarla e mangiarla senza badare troppo al fatto che gli altri avrebbero pensato che fossi un animale“, mi ha detto». Erano già più di 15 anni – da quando era detenuto al 41bis dal 1997 – che Spatuzza non vedeva un filo d’erba.
«Aveva consapevolezza delle criticità del sistema di protezione dei collaboratori di giustizia – ricorda Montanaro al nostro giornale – “Io ho fatto il killer – mi confidò – e so bene che quando Cosa nostra decide che qualcuno deve essere eliminato, arriva ovunque”». Ancora di più in un’epoca in cui chiunque può fare una foto con il cellulare e postarla immediatamente sui social. «Temeva che potessero portarlo anche in un luogo turistico e “se rientro nello scatto di qualcuno che poi lo pubblica, mi riconoscono e possono sapere dove venire a cercarmi“». Dopo una serie di permessi rifiutati, l’uomo che era cresciuto agli ordini dei fratelli Graviano nel quartiere Brancaccio di Palermo, viene rassicurato da alcuni funzionari di polizia che gli spiegano l’importanza di cominciare ad avere contatti con l’esterno e gli assicurano che verrà portato in un posto bonificato e sicuro. «Mi raccontò che i primi giorni di permessi premio li aveva trascorsi tra chiese e cimiteri – dichiara Montanaro – Tra le lapidi di perfetti sconosciuti aveva l’abitudine di lasciare dei fiori perché ricordava le parole che diceva la madre quando andavano sulla tomba del fratello morto per lo scoppio di una mina a dieci anni (mentre un altro era scomparso per lupara bianca, ndr): “I morti ci appartengono tutti“». I primi contatti con il mondo esterno arrivano dopo tanti anni di detenzione. «Quando sono andata a trovarlo dopo la sua prima esperienza di permesso premio – ricorda la sociologa – mi raccontò di una sensazione di stupore nei confronti della natura. Si era soffermato a osservare il cielo, il mare, i bambini che giocano nei parchi e mi disse: “Io adesso vedo quello che prima non vedevo“».
Entrato in carcere da mafioso appartenente al gruppo di fuoco del mandamento dei fratelli Graviano – con alle spalle rapine, estorsioni e circa 40 omicidi – quando esce per i permessi, Spatuzza si sente «un uomo nuovo. Non si riconosce più in quello che è stato – racconta Montanaro – ma “non lo voglio e non lo posso dimenticare perché sarebbe un’offesa nei confronti delle vittime. Per capire come mi devo comportare, mi serve ricordare quel tratto della mia vita pieno di orrore”». A scuola fino alla terza elementare, a undici anni inizia già a lavorare e quando non è ancora adolescente comincia a frequentare la famiglia dei Graviano ed entra a fare parte di quell’universo mafioso convinto che sia l’unico possibile. Restio inizialmente a trasformare la sua storia in un libro, Spatuzza si convince dopo il primo incontro con Montanaro. «Mi disse che accettava solo perché io ero una sociologa e pensava di potere dare un contributo da quel punto di vista – aggiunge la studiosa – soprattutto pensando ai giovani di Brancaccio. Non gli interessava apparire». Un percorso, quello di Spatuzza, che va dall’incoscienza alla coscienza. «È pentito che più di così non si può – dichiara al nostro giornale la sua avvocata Valeria Maffei – Io capisco i detrattori, ma la legge è la legge in ogni caso. Lui ha chiesto scusa a tutte le vittime in maniera sincera e, da collaboratore, ha detto e fatto quanto era in suo potere». Sul futuro di Spatuzza da uomo libero la legale non si sbilancia ma esclude che possa seguire le orme di Gaspare Mutolo. Il pentito di mafia che si è smascherato sulla copertina di un giornale e che non disdegna di partecipare ai programmi e trasmissioni. «Spatuzza non credo che lo vedremo mai in televisione», aggiunge Maffei.
Le dichiarazioni che Spatuzza ha fatto ai magistrati hanno portato a un rivoluzione dei processi sul depistaggio più importante della storia italiana. Coinvolto dalle stragi del 1992 fino al fallito attentato dello stadio Olimpico di Roma del 1994, «da quando si è convertito e ha deciso di collaborare con la giustizia – racconta Montanaro – ha svelato delle verità nuove rispetto a quelle che erano state scritte anche in sentenze definitive. Si è autoaccusato del furto dell’auto riempita di tritolo per la strage di via D’Amelio e ha fatto scarcerare undici persone innocenti», sottolinea la sociologa che, oltre a ricostruire la sua carriera criminale e di pentito, ha anche avuto la volontà di «scandagliare il suo ravvedimento interiore, per quanto possibile. Alla fine del nostro incontro mi disse: “Nemmeno cinquanta ergastoli possono ripagare tutto quello che ho fatto. Mi sento responsabile anche di cose a cui non ho partecipato e di cui non ero nemmeno a conoscenza per il fatto stesso che ero inserito dentro Cosa nostra».
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