«Quando vuoi». Due parole per decidere una condanna a morte. A pronunciarle il 29 luglio 2014 è il detenuto Salvatore Rapisarda senza sapere di essere intercettato, durante un incontro nella sala colloqui del carcere di Bicocca con il figlio Vincenzo. A distanza di 24 ore il tentato omicidio a Motta Sant’Anastasia di un affiliato del clan avversario. E’ questo l’ultimo atto, ricostruito dagli inquirenti, per il ripristino degli equilibri criminali nel territorio di Paternò dopo l’omicidio eccellente di qualche settimana prima del nuovo boss emergente Salvatore Leanza. Un intreccio di vicende e storie, la cui genesi risale addirittura agli anni ottanta, e che prevedeva, come spiegato dalla magistrata Antonella Barrera in conferenza stampa, «l’eliminazione del gruppo rivale, partendo dall’omicidio del nuovo capo Leanza e passando successivamente per quello, mancato, del suo autista, Antonino Gianblanco».
A fronteggiarsi due gruppi rivali, da un lato gli Alleruzzo-Assinata vicini alla famiglia mafiosa di cosa nostra dei Santapaola, e dall’altro i Rapisarda-Morabito ritenuti in stretto collegamento con i Laudani. Il ritorno in libertà di Leanza, dopo diversi anni trascorsi in carcere per fatti di mafia e omicidi tra cui quello di Alfio Rapisarda (fratello di Salvatore ndr.) avvenuto nel 1980, avrebbe modificato gli equilibri della mafia paternese dando il via a una faida di sangue. Dopo l’omicidio del nuovo emergente bollato come «una presenza scomoda» e ucciso da tre killer mentre si trovava insieme alla moglie, rimasta ferita, l’attenzione dei Carabinieri si concentra proprio su Salvatore Rapisarda. L’uomo aveva adottato infatti diverse cautele, come ad esempio quella di evitare di uscire di casa, probabilmente preoccupato per delle possibili ripercussioni nei suoi confronti. Il 15 luglio tuttavia Rapisarda finisce in manette per scontare un residuo di pena, da qui il monitoraggio dei colloqui in carcere, l’ordine al figlio, e il fallito omicidio dell’autista di Leanza. Due episodi strettamente collegati su cui si sono concentrate le indagini, durate otto mesi, sotto il coordinamento della Procura di Catania, che hanno portato alle misure cautelari per 16 persone nell’ambito dell’operazione denominata En plein.
L’autorizzazione per compiere l’omicidio veniva chiesta a chi aveva il peso di darla
Di entrambi i fatti di sangue si è autoaccusato come esecutore materiale un nuovo collaboratore di giustizia. Franco Musumarra, questo il suo nome, ha deciso di rivelare ai magistrati etnei i particolari dell’organigramma dei due sodalizi oltre a ricostruire le dinamiche della violenta faida mafiosa su cui sono ancora in corso delle attività di riscontro da parte degli inquirenti. Per l’omicidio Leanza è stato individuato come mandante Salvatore Rapisarda mentre rimangono, ancora per poco, senza nome i tre killer, componenti del gruppo di fuoco. Già definita invece la ricostruzione del tentato omicidio di Gianblanco. Di questo fatto, oltre allo stesso Rapisarda, è chiamato a rispondere il figlio Vincenzo insieme a Francesco Peci. L’uomo arrestato lo scorso ottobre dai Carabinieri della compagnia di Paternò guidata dal capitano Lorenzo Provenzano, era il custode di una pistola mitragliatrice M12 dotata di silenziatore. La stessa arma, come confermato dalle analisi del Ris di Messina, che era stato utilizzata per il tentato omicidio di Motta Sant’Anastasia. La disponibilità di armi però non riguardava solo il gruppo dei Rapisarda. In un ovile di proprietà di Giuseppe Scaglione Tilenni, ritenuto affiliato del clan di Leanza, sono stati ritrovati altri armamenti perfettamente funzionanti.
All’operazione hanno preso parte 150 uomini. Oltre ai Carabinieri del comando provinciale di Catania c’è stata la partecipazione del nucleo speciale dei Cacciatori di Calabria. Non solo omicidi ma anche «attività estorsiva, assunzioni obbligatorie, la presenza di una cassa comune» ha sottolineato il comandante Casarsa. Il monitoraggio al carcere di Bicocca non ha riguardato però soltanto la sala colloqui ma anche la zona rupestre a ridosso della casa circondariale. Più volte infatti alcuni affiliati, come dimostrano le ambientali, si ritrovavano in quell’area per discutere delle dinamiche interne e dei nuovi equilibri mafiosi a Paternò.
Ecco l’elenco dei destinatari di misura cautelare
– Antonino Barbagallo, classe 1976;
– Alessandro Giuseppe Farina, classe 1985;
– Rosario Furnari, classe 1978;
– Antonino Giamblanco, classe 1965;
– Antonio Magro, classe 1975;
– Vincenzo Morabito, classe 1960;
– Giuseppe Parenti, classe 1982, già agli arresti domiciliari;
– Vincenzo Patti, classe 1979;
– Francesco Peci, classe 1977, già detenuto nel carcere di Siracusa;
– Salvatore Rapisarda, classe 1955;
– Vincenzo Rapisarda, classe 1988;
– Sebastiano Scalia, classe 1974;
– Pietro Giovanni Scalisi, classe 1957, rintracciato a Brescia;
– Angelo Sciortino, classe 1974;
– Giuseppe Tilenni Scaglione, classe 1976, già detenuto nel carcere di Caltagirone;
– Salvatore Tilenni Scaglione, classe 1966.
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