Paternità senza sbarre all’Ucciardone Detenuto: «Mi manca tutto di mia figlia»

Sono 22 mila, sono detenuti e sono padri. Migliaia i genitori in carcere che spesso hanno difficoltà a rapportarsi con i figli. È quanto emerge dalla ricerca Paternità senza sbarre realizzata dall’ Isp  – Istituto di studi sulla Paternità  – sottoponendo a circa 200 detenuti un questionario di trenta domande fra ottobre 2013 e novembre 2014. L’indagine è stata condotta in sette carceri italiane: Rebibbia, Velletri, Civitavecchia Nuovo Complesso, Civitavecchia Casa di Reclusione, Secondigliano, Sollicciano e Ucciardone. I padri detenuti rappresentano un terzo della popolazione carceraria maschile

Che cosa le manca di più di suo figlio? Hanno chiesto gli esperti e «una delle risposte più belle è arrivata proprio da un detenuto dell’Ucciardone – afferma il presidente dell’Isp Maurizio Quilici –  che pensando alla figlia ha detto: “Mi manca tutto, il suo respiro, il suo odore, le sue coccole, i suoi capricci, vederla ballare, mi manca la luce che emana, mi manca davvero tanto”». All’epoca della sua carcerazione, marzo 2014, la piccola aveva sette anni. L’uomo è stato sentito dall’Isp a settembre dello stesso anno. 

Nel caso dell’Ucciardone sono stati riscontrati in particolare due problemi, evidenziati dalla più alta percentuale di risposte negative dei carcerati. In particolare sui locali adibiti agli incontri con i figli e le modalità in cui avvengono «abbiamo riscontrato l’87 per cento dei giudizi negativi», spiega Maurizio Quilici presidente dell’Isp . In particolare lamentano la «mancanza di privacy, angustia dei locali poco adatti ai bambini». Gli aggettivi espressi dai detenuti in merito al luogo di incontro con i figli sono, riporta lo studio «”bruttissimo”, “pietoso”,  “pessimo”, “umido” “sporco”, “cupo”, “senza igiene”». Il secondo problema emerso all’Ucciardone riguarda la difficoltà di avere un contatto fisico con i figli «e la severità delle guardie carcerarie che vietano di abbracciarli, se cercano di avvicinarsi», afferma Quilici. Molti «hanno riferito in particolare il problema del muretto divisorio – dice ancora Quilici – rilevato un anno e mezzo fa.  Adesso però, ci assicurano dal Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria ndr),  è stato eliminato. In particolare, tra le tante, è stata diffusa una circolare che «raccomanda alle direzioni di consentire il contatto fisico tra padre e figlio», riferisce il presidente dell’Isp. In teoria è una questione di sicurezza, l’abbraccio «potrebbe servire come mezzo di scambio per un biglietto o un oggetto. Ma non dimentichiamo che anche i bambini vengono perquisiti prima del colloquio», sottolinea ancora Quilici

 Lo studio parte dal reinserimento nella società sancito dall’articolo 27 della Costituzione.«Uno dei mezzi più potenti per la riabilitazione dei detenuti è quello di migliorare il rapporto con i figli: quanto è più stretto il legame con la famiglia tanto meno c’è il rischio di recidiva e di casi di violenza in carcere». «Essere padre – continua il presidente dell’Isp –  significa acquisire e mantenere la responsabilità di esserlo e di diventare un punto di riferimento. E il complesso di regole e restrizioni in carcere è talmente forte che, come dimostrano diversi studi, il detenuto viene ridotto a fanciullo». Molti dei detenuti poi hanno la famiglia in un’altra città. «Quando l’Ue ha sanzionato l’Italia per il sovraffollamento, i detenuti sono stati trasferiti in carceri con meno carcerati: questo ha risolto un problema e ne ha di fatto creato un altro».

«Il detenuto deve espiare la pena perdendo la libertà ma non la sua identità di persona: parliamo anche ad esempio del problema della sessualità in carcere, che da noi è ancora un tabù con esiti spesso disastrosi», dice Quilici. Una cosa che è emersa condivisa da tutti gli esperti  è l’eccessiva differenza di trattamento fra un carcere e l’altro  come riscontrato dalla enorme difformità di risposte riportate nello studio. Aspetti positivi sono stati riscontrati ad esempio a  Secondigliano e Solliciano. All’Ucciardone ad esempio è stata registrata la più alta percentuale di detenuti, l’81 per cento, che ritengono che si possa essere dei buoni padri anche in carcere. «Un ottimo segnale perché denota una speranza e una convinzione sulla quale di può lavorare per il rapporto padre figli».

Oltre alle difficoltà oggettive che possono incontrare nelle carceri, una delle problematiche maggiori riguarda lo scarso interesse dell’opinione pubblica nei confronti di chi deve scontare il suo debito con la giustizia: «Non se ne parla molto perché il tema della carcerazione del detenuto è un tema scomodo, che suscita nella gente fastidio e timore – precisa Quilici – la percezione che si ha del carcere e in particolare di chi ha commesso un crimine è che se la sia cercata e che se resta in galera non viene messa a rischio la nostra sicurezza, la nostra identità. Il prossimo step è  quindi porre il problema all’attenzione opinione pubblica e creare un tavolo di lavoro multidisciplinare per affrontare in modo specifico i problemi della paternità». 

Stefania Brusca

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