Palermo-Milano nel ‘tunnel’ d’Italia

Sono un palermitano che, come in tanti, a 18 anni ha fatto le valigie. Era la fine del 1983. L’anno prima, a giugno, l’Italia aveva vinto i mondiali di calcio in Spagna, commuovendo il mondo e riscrivendo un bel pezzo dell’Unità d’Italia, da Milano a Palermo, da Sandro Pertini a Carlo Alberto Dalla Chiesa. Sì, credo proprio che anche il Generale abbia festeggiato la vittoria degli azzurri, abbracciando i suoi cari, gli amici e forse anche anche chi non conosceva, perché tutti abbracciavano tutti, quel 13 giugno 1982, purché italiani. Appena 3 mesi dopo quel Generale cadde a Palermo insieme alla moglie Emanuela Setti Carraro e all’agente Domenico Russo, uccisi per mani mafiose e sconosciute. Poi i nomi si seppero e i mandanti pure, consegnando all’ignoto ancora una volta le altre risposte, quelle terribili sui dubbi e sulle ombre, il delitto di Stato e le responsabilità politiche.

E così un anno dopo, preso il diploma, come in tanti feci le valigie in cerca di futuro, destinazione Milano. Palermo puzzava di morte e di prediche inutili ma io, per fortuna, ero ancora troppo giovane e libero per piangere la mia terra. Milano, poi chissà Parigi o New York, cittadino del mondo, si vedrà.

Palermo e Milano: due opposti, due opposte illusioni, entrambe italiane. Un viaggio allora solo in treno, in attesa del low cost. Andata, ritorno, e ancora andata e poi ritorno al punto da non sapere più distinguere il ritorno dall’andata. Un viaggio lunghissimo, il vero viaggio della mia vita, guardando e ascoltando me stesso seduto accanto al finestrino e dall’altra parte, là fuori, con i suoi profumi e le sue tante diverse voci, l’Italia intera, dallo Stretto alla Padania.

E il futuro è durato 23 anni. Milano mi ha dato tanto, formazione, sicurezza, esperienza, amicizie e affetti sinceri. Ma poi ha cominciato a starmi stretta, sempre più chiusa fra la cerchia dei navigli, il business, il marketing, la moda tutta uguale, rigorosamente nera. E la corruzione. Milano, con la sua straordinaria storia di libertà e intraprendenza, diventava più simile a Palermo che all’Europa, incantata e affascinata da un partito e poi da una coalizione sbagliata e gravemente malata. Poi dalla politica clientelare, dalle tangenti e poi ancora da una crisi che oggi è tutta italiana. E inevitabilmente, negli anni, ho sentito il richiamo della mia natura mediterranea. Mi mancava il mare, quello vero e profondo, gli orizzonti e le domande che solo un’Isola senza ponti sa darti, e poi ancora una volta la libertà. Sì, così come mi ero sentito libero di partire, con il consenso di tutti, adesso, dopo 23 anni, volevo sentirmi libero di tornare, seppure con il consenso solo di mia moglie e la fiducia cieca di mio figlio, fra lo stupore un po’ invidioso e un po’ ammirato delle opposte sponde: “Auguri, fai bene a lasciare questa città invivibile – dicevano a Milano – ma sei un pazzo, che ci vieni a fare qui, non pensi a tuo figlio?”, replicavano a Palermo.

Sono passati ormai 6 anni dal ritorno a casa, e dico casa perché ho capito che il primo passo per diventare cittadini del mondo è riconoscere e amare la propria casa. E la mia casa è la Sicilia, che amo follemente con la sua bellezza struggente e sensuale. Una casa dove il mare, il sale e la lava sono più abbondanti della terra, e quindi una casa che poteva e doveva essere diversa necessariamente da Milano e dall’Europa. Ma è una casa occupata, peggio che militarmente, da uomini intrisi d’asfalto, cemento e appalti, che al mare lasciano scarichi e benzina o, quando lo amano veramente, prenotano prima degli altri le cabine in affitto.

Ho capito adesso che la mia scelta di andare via a 18 anni non è stata affatto libera. Nell’ambiente per bene in cui avevo vissuto, a casa, a scuola, all’oratorio e con i grandi amici di sempre, avevo respirato e condiviso i valori importanti del rispetto e della dignità del lavoro e della persona. Non accettavo culturalmente il principio della raccomandazione come regola pratica di vita, non mi attraeva il posto pubblico e in più avevo curiosità e voglia di aprire la mente, così senza accorgermene mi sono ritrovato “costretto” ad andar via.

Non sono (ancora) pentito di essere tornato, ma sono molto preoccupato e spaventato. La bellezza inimitabile di questa terra è solo un attimo rubato ad ogni giorno, ma per il resto ciò che ci circonda è assai peggio della cerchia dei navigli e rischia di trasformarsi in un divieto d’accesso assoluto ed eterno. E’ vietato sperare, vietato cambiare, vietato crescere professionalmente, vietato credere nella libera concorrenza e nella meritocrazia, vietato difendersi, vietato liberarsi da questa terribile piaga che è la Regione siciliana, una ‘Corte’ più che un Parlamento, sostenuto da alleanze di nemici, divenuto abusivo e totalizzante all’interno di uno Stato già troppo piccolo (in tutti i sensi) che è l’Italia.

Questa Italia, lo sappiamo, è malata ormai da troppo tempo, si è ammalata rinnegando se stessa e le sue formidabili capacità e Milano, da questo punto di vista, è proprio la testimonianza più concreta di quanto patrimonio abbia sprecato questo Paese: culturale, economico, competitivo, innovativo.

Ma Palermo è un’occasione sprecata in più, di questo Paese. Perché Palermo e la Sicilia sono un patrimonio di tutta l’Italia, così come Roma, Firenze e Venezia. E la Sicilia occupata dalla Regione, dalla politica e dalla mafia è e dovrebbe essere una preoccupazione prioritaria del nostro cosiddetto sistema Paese. La Sicilia che seguì al maxiprocesso e alle stragi di Falcone e Borsellino era una Sicilia che stava provando a reagire, forse credendo anche a un qual certo sostegno nazionale, una solidarietà umana innanzi tutto. E’ emblematico il 1992, un anno in cui a Milano scorrono ancora tanti soldi e tante offerte di lavoro e dove scoppia Tangentopoli, mentre a Palermo si guarda e si tocca con mano il buio più profondo, con l’omicidio di Falcone prima e Borsellino subito dopo. Palermo, intesa come città e cittadini, forse per la prima volta veramente reagì. E fu reazione siciliana e nazionale, forse l’unica volta per davvero che si poteva arrivare fino in fondo, uniti. Ma i tempi, le strategie e i fini purtroppo non combaciarono.

Siamo arrivati ad oggi e sappiamo bene com’è andata. Da una parte, lassù, si fronteggia la crisi con grande fatica e sperando tutti soltanto in quello che è rimasto di sano, ovvero tanti cittadini che fanno resistenza. Che continuano a lavorare, con l’afa o con la nebbia, inseguendo il Pil, come una volta, ma molto più inseguendo lo stipendio, sperando che questo mese arrivi ancora. Resistono, aspettando che passi, ben consci della “casta” che rema contro e della distanza della politica, con la Regione Lombardia sempre più simile al peggio del Sud, con tanti inquisiti e brutti personaggi che governano, decidono, sfasciano. Milano resiste, per fortuna, anche alle tentazioni della camicia verde, forse perché oltre a guardare il tristissimo spettacolo di Bossi, Maroni e Calderoli, a Milano i giornali si leggono e i volti di Cuffaro e Lombardo sono noti, e sanno anche a Milano che la Sicilia che rende omaggio a quei volti è, in effetti, una Regione a Statuto autonomo, ovvero un esempio perfetto di federalismo.

 

E quaggiù? possono fare resistenza i cittadini? E come? Ho votato e sostenuto Davide Faraone e lo rifarei, nonostante la leggerezza che ha commesso, cascando ingenuamente nei trucchi della politica. Per intenderci, la leggerezza di Davide Faraone è niente rispetto al disastro complessivo delle Primarie e al danno irreversibile che il Pd continua a fare in questa città, confermandola una terra di nessuno o, meglio, dei pochi eletti.

Chi può oggi candidarsi a Sindaco? Chi dovremmo noi candidare? E’ incredibile che la sinistra di Palermo e le sue possibili incarnazioni non riescano ad esprimere un’alternativa possibile, e dunque a vincere, in una città così massacrata e terribilmente amministrata dal centrodestra per ben dieci anni. Neanche quando l’avversario fa un clamoroso autotogoal, e quindi vincere è più facile, neanche in questo caso si vede il futuro di questa città.

Verrebbe voglia di cercare ancora, ovunque, anche fuori da qui, aggrapparsi a queste elezioni e gridare all’Italia intera che non è più possibile sprecare tempo, risorse e territorio. Ma chi accetterebbe mai di venire in questa città? E noi, Palermitani e legittimi ‘proprietari’ di questa città, quanto saremmo disposti a pagare per avere davvero un bravo Sindaco? Indignarsi, scendere nelle strade, denunciare gli inciuci e rimboccarci le maniche? Anche volendo, siamo liberi di farlo o è davvero ancora questa la differenza fra Milano e Palermo?

Palermo è una città che fatica a difendere la propria identità, semplicemente non curandola, e trasformando pericolosamente ogni luogo in non luogo. E del resto io credo che esistano Sindaci e Non Sindaci. Diego Cammarata è stato per 10 anni il Non sindaco di questa città.

Anche quello che verrà sembra già appartenere a questa categoria. E noi continueremo ancora chissà per quanto tempo a cercare disperatamente il futuro, che ormai non è più necessariamente un treno verso Milano.

foto di prima pagina tratta da publicdomainpictures.net

 

 

 

Emilio Pursumal

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